“Furto di democrazia”, “dittatura dei giudici”, “complotto politico-giudiziario”. Una lunga scia di invettive sta colpendo la Corte parigina dopo la condanna di Marine Le Pen. A gridare allo scandalo, sono soprattutto leader politici, europei e no. Alcuni ricoprono ruoli di governo. E tra loro, troviamo persino rappresentanti di Paesi che rifiutano in radice lo Stato di diritto. Tutto avviene secondo un copione noto in Italia. Quindi. Scarso interesse a discutere su natura degli addebiti, prove e regolarità del processo. Ancor meno sulle motivazioni della sentenza, compreso il delicato profilo che giustifica l’immediata ineleggibilità all’Eliseo, in presenza di un giudizio non definitivo. Un solo argomento domina certe reazioni: non è ammesso il controllo giudiziario verso chi è stato eletto e riveste cariche pubbliche, o si candida a farlo. Con buona pace della “legge uguale per tutti”.
Da anni, la delegittimazione dei giudici per sentenze sgradite scuote le democrazie occidentali. Ad alimentarla, spesso, sono gli eletti dal popolo. Nel mirino hanno non solo iniziative penali verso i politici; ma ogni decisione giudiziaria in rotta di collisione con governi e maggioranze parlamentari su temi sensibili per i cittadini, quali la sicurezza, le banche, il lavoro, la bioetica, l’ambiente, l’immigrazione. In Italia, ad esempio, le non convalide dei trattenimenti dei migranti in un centro in Albania, hanno scatenato anatemi di ogni tipo. E allora: a cosa mirano certe sortite? Solo a un riequilibrio del rapporto tra giustizia e politica, a vantaggio di quest’ultima? A qualcosa di più?
Una chiave di lettura la offrono due apprezzati politologi di Harvard, Stefan Levitsky e Daniel Ziblatt (Come muoiono le democrazie, 2019). La loro ricerca documenta la parabola di leader europei e americani che, una volta eletti, si ribellano ai vincoli dello Stato di diritto, vissuti come ostacolo all’esercizio delle prerogative di governo. Talvolta pure con il sostegno di élite tecnocratiche, promuovono una idea del potere inteso come “blocco unico”, che non può prescindere da una magistratura omogenea al potere esecutivo e ai poteri economici.
Qualche anno fa in Polonia e Ungheria, ad esempio, gli esecutivi hanno occupato le autorità di garanzia (Corte costituzionale) e imposto riforme in grado di addomesticarle, anche con l’espulsione di giudici non allineati. Poco a poco, con la demonizzazione di chi manifesta dissenso, si sono erosi i diritti di minoranze (lgbt, migranti) e “soggetti deboli” (aborto), e con essi la democrazia. Il tutto, senza fatti traumatici.
In Italia, la Costituzione del 1948 rifiuta la logica del “blocco unico”. Lo stesso rapporto tra politica e giustizia si fonda su un policentrismo dei poteri, ritenuto più garantista per il cittadino. L’istituzione chiave per l’autonomia di giudici e pubblici ministeri è il Consiglio superiore della magistratura. L’organo, composto in prevalenza da magistrati eletti da magistrati, ha tolto al ministro della Giustizia la competenza sulla carriera delle toghe (trasferimenti, promozioni e interventi disciplinari), che, durante il fascismo, era la leva per condizionare i processi su vicende politicamente sensibili. Nel tempo, pur vivendo ciclici momenti di crisi e opacità, il Csm ha contribuito alla crescita della giurisdizione in senso egualitario e ha sostenuto i magistrati in prima linea nella difesa della democrazia durante le drammatiche emergenze del Paese: terrorismo, mafia e corruzione sistemica.
Ma, oggi, il governo italiano intende cambiare quella rotta costituzionale. La riforma della giustizia procede a tappe forzate in un clima generale da “resa dei conti”. E non sono solo i magistrati a segnalarne i pericoli. Per come è concepita la separazione delle carriere, nei fatti già completata dalla riforma Cartabia, lungi dal rafforzare le garanzie per i cittadini pare piuttosto il preludio “ai pm sotto l’esecutivo”, come auspicato dal sottosegretario alla Giustizia (il Foglio, 14.3.2025). E, poi, si sdoppia il Csm. Uno per i giudici, uno per i pm. E due Consigli superiori separati, privi di competenza sul disciplinare e con membri togati sorteggiati e non più eletti, non sembrano in grado di assicurare uno scudo robusto per l’indipendenza dei magistrati dalle pressioni dei potenti di turno.
Ebbene, in tempi insidiosi per ogni democrazia, riforme di sistema così delicate suggerirebbero supplementi di riflessione. Invece, per i proponenti, il testo in Parlamento è blindato. Come dire: avanti tutta. Con la separazione delle carriere sulle labbra e i giudici addomesticati dalla politica nel cuore?
*Presidente del Tribunale di Palermo
Tratto da: Il Fatto Quotidiano
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