Lo sciopero dei magistrati è un fatto eccezionale. Tanto più quando, come in questo caso, ha una motivazione puramente di principio, senza alcuna ragione di interesse personale da parte dei magistrati. Non è uno sciopero tipicamente sindacale. Si tratta della sospensione dell'esercizio di una funzione sovrana dello Stato. A coloro che hanno effettivamente lasciato il lavoro vanno aggiunti quelli che, proprio per la consapevolezza della natura dell'attività giudiziaria, hanno dichiarato di aderire allo sciopero (cosa che comporta la ritenuta salariale) pur di fatto continuando a lavorare. Nel sistema costituzionale la presidenza del Consiglio superiore della magistratura assegnata al Presidente della Repubblica non è solo in funzione della tutela della indipendenza della magistratura, ma anche di raccordo di quel corpo professionale con lo Stato nel suo complesso rappresentato dal suo vertice. Indipendenti sì, ma legittimati ad agire in quanto potere dello Stato. E questa volta, nel contesto venutosi a creare nel corso degli anni, la contrapposizione con governo e parlamento riguarda l'assetto fondamentale delle istituzioni: non questo o quell'aspetto della legislazione, o i mezzi materiali che consentono di svolgere i compiti della magistratura. Naturalmente dal punto di vista della legalità formale l'opera di riforma costituzionale in corso in parlamento è del tutto regolare, su un testo che il governo ha «blindato», ma pare forse disposto a «sblindare» un poco, avendo il parlamento a disposizione. È infatti la stessa Costituzione che prevede la procedura che consente di riformarla (parlamentare e poi di referendum). Ma in questo caso, da parte unanime della magistratura associata nella Anm (gli iscritti sono più del 90% – tutti magistrati rossi? ) si pone una questione che viene prima di ogni specifica soluzione organizzativa. L'indipendenza della magistratura, infatti, è una condizione dello Stato di diritto e richiede attenta regolamentazione delle funzioni, che sono attribuite sia ai giudici che ai pubblici ministeri. L'indipendenza di questi ultimi condiziona quella della funzione giudiziaria nel suo complesso. In tal senso si è espressa anche la Corte europea dei diritti umani, proprio con richiamo ai principi propri dello Stato di diritto.
L'eventualità di una riforma della Costituzione che, sotto il nome riduttivo di «separazione delle carriere», porti a diminuire l'indipendenza del pubblico ministero è la ragione forte della opposizione della magistratura. Il testo della riforma in discussione in parlamento non offre spunto testuale a questo timore. Naturalmente non vanno prese sul serio le parole del ministro della Giustizia, che garantisce che non metterà mai in discussione l'indipendenza, perché lui stesso è stato pubblico ministero per molti anni. Tanto più che le accuse alla magistratura da parte politica, dalla presidente del Consiglio, dal ministro della Giustizia, dal ministro dei Trasporti e dai parlamentari e giornali dell'area della maggioranza, sono sempre riferite a singole vicende giudiziarie, proprie di giudici o di pubblici ministeri. Il che illustra la vera ragione politica che produce la proposta di riforma, molto più del testo legislativo in discussione. Si vuole infatti che quelle vicende non si verifichino più. Pesa comunque la logica del nuovo sistema, che prevede lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura e la previsione che i magistrati che li comporranno non siano più eletti dalla magistratura, ma sorteggiati. Sorteggiati e quindi in nessun modo rappresentativi della magistratura, nella sua complessità e varietà di orientamenti. Si dice che si vuol combattere l'influenza delle correnti esistenti in magistratura. In realtà si combatte il pluralismo dei modi di vedere il ruolo del magistrato e il funzionamento degli uffici giudiziari, e si dice che si vuole contrastarne la «politicizzazione» (di coloro che dispiacciono alla maggioranza politica). In ogni caso andrebbe spiegato quale sia la specificità della funzione dei pubblici ministeri, tale da richiederne la separazione dall'altra parte, quella giudicante. Se, come sarebbe serio fare, la magistratura abbandonasse la genericità del richiamo ad una «cultura della giurisdizione» che oggi sarebbe un fattore comune ai giudici e ai pubblici ministeri, si potrebbe entrare nella discussione dei temi veri. Il tema delle scelte di politica penale, generale del Paese e delle sue articolazioni territoriali; il tema delle scelte prioritarie di trattazione delle notizie di reato; la modulazione anche quantitativa della presentazione dei casi al giudice in considerazione della capacità degli uffici giudicanti di definire i casi; la più idonea strutturazione degli uffici del pubblico ministero.
Ora l'assegnazione delle funzioni direttive delle Procure della Repubblica segue criteri che nascondono la realtà sotto la coltre di evanescenti comparazioni di merito dei singoli magistrati. E quindi si è indotti a stigmatizzare le divisioni nelle votazioni in Csm, che si attribuiscono a deteriore correntismo, invece che a legittime scelte di (presumibile) orientamento del candidato preferito. Poi l'eletto, come sempre più spesso avviene, il giorno della presa di possesso del nuovo incarico pronuncia un discorso programmatico e, se si tratta di un ufficio importante, lo fa magari in presenza del prefetto, del questore, del sindaco e dei responsabili delle forze di polizia. Lo fa però dopo essere stato nominato, non prima! Si tratta di questioni che meriterebbero discussione franca e aperta, il cui esito nutrirebbe utilmente il dibattito su questa o altra riforma. In fondo, un diverso assetto proprio degli uffici del pubblico ministero è già previsto e consentito dall'art. 107 della Costituzione. Insomma, i problemi del pubblico ministero non dovrebbero essere affrontati solo con poche parole d'ordine, anche se di nobile respiro, come sono il richiamo da parte della magistratura ad una indefinita «cultura della giurisdizione» da mantenere comune a giudici e pubblici ministeri e, da parte degli avvocati delle Camere penali, al perseguimento di una vera terzietà dei giudici, che oggi sarebbe inesistente. Lo sciopero della magistratura è evento drammatico per le istituzioni. Senza ottimismo, si deve sperare che ne segua una discussione adeguata dei problemi reali, abbandonando l'agitazione di discutibili e comunque insufficienti bandiere. —
Tratto da: La Stampa
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Separare le carriere non cambia la giustizia
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