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Giambattista Scidà è stato un magistrato illuminato dalla passione per il riscatto sociale dei giovani. Ha guidato per trent’anni il tribunale per i minorenni di Catania; è stato un faro per coloro che riconoscevano nella questione minorile la conseguenza del malaffare pubblico della città e la fonte dell’inesauribile forza delle associazioni mafiose.
Scidà è stato un magistrato scomodo, per la sua opposizione ai poteri presenti nel palazzo di giustizia; e per considerare la giustizia compartecipe nel mancato riscatto della città. Essergli pubblicamente amico significava avere contro la gente che contava, significava essere eretici e invisi a quanti per interesse o per quieto vivere si tenevano distanti dai suoi richiami. Scidà era un aristocratico votato alla causa dei più deboli, una figura affascinante, carismatica, irripetibile. Aveva un approccio nobile e disinteressato alla professione di magistrato, per il disprezzo della materialità e la continua coltivazione dei valori, per il suo darsi ai poveri e a chi non aveva avuto nulla nella vita.
Oggi sono 13 anni che non è più con noi, ma abbiamo ancora dinanzi agli occhi il suo sguardo, simile a quello del curato Chélan, nel quale “fiammeggia la luce di chi vuol compiere una buona azione un po’ pericolosa”.
Scidà ci ha insegnato che vivere pericolosamente è un nostro dovere di magistrati e cioè che non dobbiamo sottrarci ai rischi che possiamo correre per compiere il nostro dovere; ma anche che dobbiamo agire con lealtà e con rispetto delle Istituzioni a differenza di chi agisce nel torbido. Voleva che mettessimo il cuore nella nostra professione per amore dei cittadini che serviamo - specie dei più indifesi - in nome dei quali soltanto può esistere lo Stato.

Tratto da: facebook.com

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