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Santo cielo. Ora mi tocca rivalutare pure Vito Ciancimino. Calma, però. Se pensate che anche io sia stato travolto dalla corrente culturale oggi di moda, prendere fior di criminali, lavarli con lo spic & span, e rivenderli come persone immacolate perseguitate dai giudici o dai comunisti del loro tempo, ecco, se pensate questo vi sbagliate. In verità sto solo praticando un succosissimo sport culturale: rileggere i libri scritti direttamente o su intervista dai boss di mafia o di camorra, o dai loro familiari più stretti. Consiglio di praticarlo a tutti per questioni di igiene mentale collettiva.
Intanto così la smettiamo di sparare fanfaluche sulla mafia che oggi sarebbe del tutto cambiata perché fa cose che, in altre forme e contesti, ha in realtà sempre fatto. In secondo luogo perché la smettiamo di dire che tutto – di questo o di quel periodo – è rimasto un mistero. Assicuro che leggendo questi libri tutti insieme si può concludere che della mafia sappiamo praticamente tutto (quel che serve sapere, naturalmente): ce l’hanno raccontato coralmente gli stessi interessati, anche se leggendo le pagine a spizzichi e bocconi può non apparire. E infine perché facciamo un viaggio nell’antropologia mafiosa in grado di stracciare qualsiasi film o romanzo.
Insomma, è praticando questo eccentrico sport che mi è lampeggiata l’idea che quel corleonese entrato in politica negli anni Cinquanta e che ha attraversato la nostra storia dal sacco di Palermo fino alla trattativa mafia-Stato di fine secolo, possa essere rivalutato almeno per un aspetto.
State a sentire. Ci narra dunque il figlio Massimo nel libro scritto con Francesco La Licata che quando aveva tredici anni e andava a scuola dai gesuiti (il Gonzaga, scuola privata di élite) era stato rimandato a settembre. “Eravamo a Mondello, nella casa di villeggiatura di via Danae, e ricordo ancora gli schiaffoni a ripetizione”, racconta. Addirittura, per costringerlo a studiare d’estate, suo padre “diede l’ordine a mio fratello Giovanni di andare a comprare una catena di diciannove metri e con due lucchetti resistenti”, che personalmente chiuse a doppia mandata intorno alle gambe, lasciando solo lo spazio sufficiente per andare dalla camera al bagno. E racconta sempre che siccome “ero scarso in italiano, mi rinchiudeva in compagnia del libro Cuore”. Ecco, pensiamo ai dettagli. Certo, la pedagogia non è raffinata né raccomandabile. Però riflettiamo: Ciancimino è forse allora la persona più potente della città, messa com’è a cavallo tra mafia e politica, il figlio viene rimandato in una scuola privata dove potrebbe protestare “io pago”, come farebbero tanti genitori oggi. E accetta il giudizio sulla sapienza del figlio dato da normali insegnanti, i famigerati rappresentanti del non facoltoso popolo del 27. Pur essendo “don Vito” non va in presidenza a protestare, non minaccia ritorsioni, né tanto meno mette le mani addosso ai professori. Anzi, punisce il figlio come sicuramente nessuno gli ha chiesto. Non era laureato, era diplomato come tutti quei genitori che dall’alto del loro sapere pensano oggi di potere giudicare l’operato dei professori e ancora più delle professoresse dei propri figli. Aveva coscienza di quel che sapeva (spettacolare il riferimento a Cuore…) e nonostante fosse abituato a dare ordini ingiusti (ce ne offre una sfilza lo stesso Massimo) aveva abbastanza senso formale delle istituzioni per accettarne il ​ giudizio sui propri rampolli.
Ora voi pensate a quelle turbe di madri e padri vocianti in difesa delle loro creature e certamente sarete presi dal brivido che ha preso me facendo questa modestissima scoperta. Un mafioso tra i più classici e partecipe di chissà quanti delitti condannato per associazione mafiosa, che rispetta la scuola più di tanta gente per bene e di tanti “stimati professionisti” d’oggi. Ma dove siamo arrivati? Ecco perché fa bene rileggere certi libri.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto © Archivio Letizia Battaglia

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