Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Sospinta dall’onda, insieme ai corpi gonfiati dall’aria e dall’acqua, la pietà umana si è infranta sulla spiaggia di Cutro. Su quel braccio di mare, in una notte buia e maledetta, abbiamo perso quel poco di innocenza che c’era rimasta. Sono morti in 100, in 250, forse in 300, in quella manciata di ore che chi avrebbe potuto salvarli ha sprecato, tra ignavie politiche e accidie burocratiche. È già successo, abbiamo già vissuto e talvolta causato queste tragedie. Le più intollerabili, per altro, non con i governi di destra ma con quelli di centrosinistra. La strage della Kater i Rades, speronata dalla motovedetta “Sibilla” della Marina Militare nel Canale d’Otranto, in cui morirono 81 migranti albanesi su 120, un Venerdì Santo del 1997 (Romano Prodi premier). La strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, che costò la vita a 368 profughi, colati a picco insieme al loro barcone davanti a Cala Croce (Enrico Letta premier).

La strage nel Canale di Sicilia dell’11 febbraio 2015, in cui annegarono 330 disperati, partiti dalla Libia su quattro gommoni (Matteo Renzi premier). Questo per chiarire subito che il dramma epocale dei migranti ci sconvolge e ci coinvolge da decenni, a prescindere dal colore partitico di chi siede a Palazzo Chigi. Ogni governo, cantava De Andrè, “si indigna si impegna poi getta la spugna con gran dignità”. Ogni volta dolore opprimente e rabbia impotente. Poi il tempo scolora e dissolve, come Xabier dice al fratello Nerea, in quel capolavoro eterno che è “Patria” di Fernando Aramburu (Guanda, 2016): “Un giorno non molto lontano, in pochi ricorderanno quello che è successo…”. “Non farti cattivo sangue. È la legge della vita. Alla fine vince sempre l’oblio…”. 

“Presidente, non ci abbandoni, chiediamo giustizia e verità”, è la preghiera che adesso rivolgono a Mattarella i pochi sopravvissuti alla “strage di Stato”. L’abbiamo chiamata così, senza aspettare i risultati di un’inchiesta lunga e complessa. È un titolo forte, consapevolmente sommario perché totalmente morale ed extra-giudiziale. Un titolo “pasoliniano”, se l’accostamento non suonasse blasfemo nei confronti di un grande intellettuale di cui oggi sentiamo una lancinante mancanza. Un titolo da scritto corsaro, pensato da chi intuisce con l’intelligenza dei fatti, ma non può denunciare per nome e cognome perché non ha prove certe e inequivoche. Magari arriveranno anche quelle, attraverso le indagini della Procura. Ma intanto rimane il giudizio politico, che è già di censura o condanna. 

A suffragarlo, oggi più che in passato, sono le reazioni inaccettabili del governo e della maggioranza. Molto più delle vaghe segnalazioni di Frontex e delle mosse incerte della Guardia di Finanza, delle timide sollecitazioni della Capitaneria di Porto e delle mancate risposte della Guardia Costiera. Quello che colpisce è la latitanza dell’esecutivo, l’assenza dello Stato da quella spiaggia e da quel palazzetto dello sport pieno di bare. Nei minuti esatti in cui il presidente Mattarella pregava a Crotone, di fronte a quelle nude casse senza nome, la presidente Meloni si inchinava in India, di fronte al mausoleo scintillante di Gandhi: era in viaggio ufficiale, e nessuno pretende che avrebbe dovuto cancellarlo. Ma prima di imbarcarsi sul volo per Nuova Delhi, mercoledì sera, ha avuto novanta ore di tempo per prenderne un altro per la Calabria, portando un fiore sul feretro dei sommersi e un peluche al capezzale dei salvati. Non l’ha fatto. E questo si è notato, ha stonato, ci ha addolorato. 

Allo stesso modo si è notato e ha stonato lo scaricabarile del vicepremier e ministro delle Infrastrutture Salvini, dal quale pure dipende la Guardia Costiera. Il Capitano ha pronunciato poche frasi di circostanza. Per il resto, fingendo di “blindarlo”, ha pilatescamente scaricato sul suo ex prefetto tutte le responsabilità per la fine di quelle centinaia di afghani, iraniani e siriani in fuga da un orrore e precipitati in un altro. Il problema è che il ministro dell’Interno se l’è prese, quelle responsabilità, ma le ha scaricate a sua volta non su di noi perché non li abbiamo soccorsi, ma su di loro perché sono partiti. Piantedosi può anche rivendicare legittimamente il suo passato di “questurino”. Ma non se il suo lessico riflette ancora quel passato, e per forma e sostanza non è all’altezza del suo presente, che lo vede di fronte al Paese responsabile “politico” della sicurezza e dell’ordine pubblico, oltre che “garante dei diritti civili, di religione e di immigrazione di tutti i cittadini”. Sappiamo bene anche noi che chiedere ogni giorno le dimissioni di qualunque esponente di governo o di sottogoverno che la spara grossa è un rito inutile e stanco. Ma a volte, a sanare una ferita, basterebbe almeno l’umiltà di riconoscere di aver sbagliato, provocandola. Se non c’è neanche questo, non si può smettere di ribadire che al Viminale siede un ministro inadeguato al ruolo. 

Ora, come scrive in modo magistrale Flavia Perina, davanti alle bare bianche dei bambini affogati, il racconto “cattivista” della destra si sgretola. La corsa a indicare le pur chiarissime colpe della Ue, il rimpallo burocratico delle competenze, la pasticciata opacità delle ricostruzioni fornite finora da tutte le autorità coinvolte: tutto questo armamentario ideologico si disarma, perché in Italia “il pensiero di una madre che annega insieme a suo figlio a cento metri dalla costa è intollerabile per chiunque, comunque abbia votato”. E questo non è “buonismo”, ma è semplicemente “il carattere profondo della nazione”, e che “esiste oltre e prima della politica”. Meglio di così non si poteva dire. 

Anche Giorgia Meloni, sia pure con grave ritardo, lo ha compreso. In uno dei pochissimi incontri concessi ai cronisti al seguito, negli Emirati Arabi, la premier dice quello che avrebbe dovuto dire poche ore dopo l’eccidio di Cutro. Non a caso, la Sorella d’Italia parte proprio dallo “strazio” del corpo di un altro bambino trovato ieri sulla spiaggia, per dedicare una preghiera “per questo piccolo e per tutte le altre vittime”, e per garantire che il suo governo si batterà con ancora più determinazione per fermare la tratta di esseri umani ma soprattutto “per impedire che altre tragedie come questa si ripetano”. Chiede se “in coscienza” ci sia davvero qualcuno capace di accusare il suo governo di aver “volutamente fatto morire” più di 60 profughi. Vuole che i giornalisti la guardino “negli occhi”, mentre parla del corpo di quel bambino di tre anni riverso sul bagnasciuga, che ci ricorda il piccolo Alan con la sua magliettina rossa ritrovato sulla spiaggia dell’Egeo nel 2016. Spiega che i fatti sono “semplici nella loro tragicità”, e cioè che “alle nostre autorità non è arrivato mai nessun segnale di emergenza da Frontex”. Nega che quanto è accaduto abbia a che fare con il decreto sulle Ong, visto che “quel tratto di mare non era coperto dalle navi delle Organizzazioni non governative”. E conferma che in questi mesi il suo governo ha continuato “a salvare tutte le persone che si potevano salvare”. 

Ci accontentiamo dell’umana pietas che ora, finalmente, scuote l’animo della presidente del Consiglio. Ma stendiamo un velo pietoso sulle mancate “segnalazioni di Frontex”. Se sono mancate all’inizio, in quella notte nera di allarmi ne sono stati diffusi diversi, e a prescindere da chi li ha lanciati nessuno si è mosso, o l’ha fatto troppo tardi. E qui torniamo alla “strage di Stato”. Nessuno, noi meno che mai, vogliamo considerare “assassino” il personale in divisa che si adopera per pattugliare i nostri mari. Ma è evidente che in Italia, dal governo gialloverde del 2018 in poi, il clima generale e “culturale” che si respira (e che anche i patrioti oggi al potere hanno alimentato) non è propriamente improntato alla solidarietà verso chi fugge dalla guerra, dalla tortura, dalla miseria e cerca un futuro nel ricco e pacifico Occidente. Le migrazioni sono raccontate non come dato fisiologico di questa fase storica, da gestire e da regolare, ma come problema di sovranità nazionale e di sicurezza pubblica, da prevenire e reprimere. Dai decreti sicurezza in poi la priorità indicata dal decisore politico - ed evidentemente trasmessa alle strutture amministrative e militari - non è stata più ispirata ai salvataggi e ai soccorsi, ma ai respingimenti e ai “blocchi navali”. 

Noi, presidente Meloni, non crediamo certo che sabato scorso qualcuno nel governo abbia scientemente deciso di far morire quelle centinaia di ultimi della Terra. Ma siamo ragionevolmente persuasi che una certa propaganda politica, ed anche certe norme di legge, abbiano influito e influiscano sulle catene di comando, e finiscano fatalmente per condizionare chi presidia le acque territoriali, e magari deve decidere in pochi minuti che peso dare a un allarme o anche solo a una segnalazione di potenziale pericolo. Come lei, anche noi siamo convinti che nell’affrontare il dossier immigrazione l’Europa abbia peccato di cinismo e di egoismo, dal Trattato di Dublino del 2003 fino ad oggi, rinviando ogni volta (ma quasi sempre per colpa degli Stati sovranisti amici dei Fratelli d’Italia) le scelte cruciali sulla disciplina del diritto di asilo, sulle norme condivise dell’accoglienza, sui ricollocamenti. Ma a differenza di lei, pensiamo che tutto questo venga dopo, molto dopo e non c’entri con il dovere primario e irrinunciabile, etico e politico, proprio di qualunque democrazia che abbia a cuore i principi di umanità e di civiltà: salvare vite umane. 

Torniamo così alle riflessioni di Flavia Perina. Dopo questa Apocalisse, anche la destra è chiamata a una nuova assunzione di responsabilità. Rispetto al 2022 i flussi migratori sono triplicati nei primi due mesi del 2023. Vanno gestiti, non esorcizzati o criminalizzati. Come sempre è compito della politica, e non lo sta facendo. Ora venga pure a Cutro, presidente Meloni, e riunisca pure lì il Consiglio dei ministri. Ma basta con la sloganistica becera e sciovinista: “stop agli sbarchi”, “aiutiamoli a casa loro”, “fermiamo l’invasione”, “evitiamo la sostituzione etnica”. Questa truce paccottiglia propagandistica da paura incombente e da campagna elettorale permanente non coglie l’umore profondo del Paese, come immaginava qualche insano teoreta dei “porti chiusi”. Prima lo capite, meglio è per tutti. Per noi che restiamo. E per quei poveri cristi ingoiati dal Mare Nostrum, a pochi metri da una riva e da una speranza. Non dobbiamo e non vogliamo consegnarli all’oblio. Anche questo, in “Patria”, dice Xavier a Nerea: “La nostra memoria non si cancella con l’acqua”.
(5 Marzo 2023)

Tratto da: lastampa.it

Foto © Imagoeconomica

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos