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Condannato per favoreggiamento, è tornato fingendosi perseguitato. Ma la sentenza è impietosa

Non solo è tornato sulla scena pubblica cittadina, ma vuole diventare il kingmaker della politica a Palermo. Totò Cuffaro sostiene, con una propria lista, il candidato sindaco del centrodestra, Roberto Lagalla (come sta facendo anche un altro condannato per mafia, Marcello Dell’Utri). E non fa mistero di avere già scelto una assessora della futura giunta Lagalla, Antonella Tirrito.

Ex senatore, ex presidente della Regione Siciliana, è stato condannato a 7 anni per favoreggiamento di persone appartenenti a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio. È stato ospite del carcere romano di Rebibbia dal 2011 al 2015. Non può più né votare né candidarsi alle elezioni, perché ha ricevuto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Ma oggi torna in scena riscrivendo la sua storia giudiziaria: “Secondo la Procura, mi è stata data la notizia che c’erano delle microspie a casa Guttadauro. Io l’avrei riferito a un assessore comunale e lui l’avrebbe detto a Guttadauro”. Il medico Giuseppe Guttadauro era all’epoca un boss di primo piano di Cosa Nostra, capo del mandamento palermitano di Brancaccio, impegnato “nella gestione di attività estorsive” e nell’organizzazione di “imponenti traffici di stupefacenti con la Colombia in compartecipazione con le famiglie mafiose trapanesi”. “Ma io – ribatte Cuffaro – non ho mai ricevuto la notizia delle microspie, dunque non posso averla passata ad altri”. Stop. Tutto il resto è “infinita gogna mediatica”. E nessuno pare ricordargli che la sentenza definitiva che lo ha condannato ritiene invece dimostrato non solo che ha certamente avvertito il capomafia delle microspie, ma anche che ha stretto “un vero e proprio patto politico-mafioso” con gli uomini di Cosa Nostra, che comprendeva anche la candidatura alle Regionali siciliane del 2001 di un uomo gradito al boss Guttadauro: Mimmo Miceli.

Per rinfrescare le idee a lui, ma soprattutto a chi non gli fa mai le domande giuste, è bene andarla a rileggere, la sentenza della Cassazione del 21 febbraio 2011, giudice relatore Filiberto Pagano, presidente Antonio Esposito. È “incontestabile”, dice la sentenza, “il dato di fatto che, alla scelta della candidatura del Miceli, si pervenne a seguito di un progressivo scambio di informazioni tra il Cuffaro e il Guttadauro, scelta certamente confermata dai due, pur in assenza, per motivi prudenziali, di incontri personali”. I contatti diretti erano evitati per prudenza, ma il politico e il boss si parlavano con la mediazione di Miceli e di un altro intermediario, Salvatore Aragona. Proprio Aragona “spiegava al capo-mafia che il Cuffaro si era dichiarato disponibile a esaudire tutte le sue richieste e che l’uomo politico non aveva alcuna preclusione nei confronti del Guttadauro”.

I contatti servivano a far eleggere Miceli, ma anche a prefigurare affari: lo dimostrano alcune intercettazioni sui “finanziamenti dell’Unione europea”: “i progetti che gli interlocutori stavano, da tempo, elaborando non erano puramente teorici, ma prevedevano ritorni, utilità, nomine di amici fidati in posti chiave allo scopo di interferire sulle scelte della Pubblica amministrazione, come risultava chiaro dal riferimento preciso alla nomina di un loro referente presso un ufficio della Regione competente sui finanziamenti comunitari”. Altre intercettazioni riguardavano “interessi economici connessi alla realizzazione di strutture turistiche nell’isola di Pantelleria”.

Ciò che in definitiva risulta provato è “l’esistenza di un rapporto politico-mafioso tra il capo mandamento Guttadauro Giuseppe e l’uomo politico Cuffaro Salvatore e la consapevolezza di quest’ultimo di agevolare l’associazione mafiosa”. Egli aveva ottenuto “il sostegno e l’appoggio dell’associazione mafiosa in cambio della promessa di un concreto impegno in favore delle esigenze dell’organizzazione. In sostanza, un vero e proprio patto politico-mafioso, un vero e proprio progetto di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale avente come principale obiettivo l’On. Cuffaro, portato avanti dal capomafia Guttadauro Giuseppe”.

La sentenza afferma che “è emerso, con il carattere della assoluta certezza: che il Guttadauro, l’Aragona e diversi altri membri del sodalizio mafioso Cosa nostra avessero fatto una attiva campagna elettorale per il candidato Miceli (e per il Cuffaro); e che si ribadiva che tutto l’appoggio elettorale andava, ovviamente, ripagato attraverso precisi impegni da rispettare dopo le elezioni, nomine presso enti pubblici e strutture ospedaliere e favori da ricambiare”.

La spiata di Cuffaro, che rivela al boss (attraverso Miceli) le microspie, nel giugno 2001 blocca le indagini e provoca “la fine di una delle più fruttuose indagini in corso”, sia sulle “attività del mandamento mafioso di Brancaccio (attività estorsive, droga, organigramma delle famiglie eccetera)”, sia sui “rapporti tra mafia, impresa, politica e Pubblica amministrazione”. Sono passati 21 anni dai fatti, 7 dall’uscita di Cuffaro dal carcere. La memoria collettiva è fragile, la disinformazione è forte e l’ex presidente si sente libero di tornare a fare il kingmaker della politica siciliana.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto originale © Deb Photo

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