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Siamo alle solite. Stiamo scivolando sempre più in basso. Nel baratro di una violenza inutile ed ingiustificata inferta agli inermi, ai deboli, agli ultimi della scala sociale nel nome della sicurezza e del benessere di coloro che ne occupano i gradini più in alto. Di coloro che stanno più su. Violenza ipocritamente intesa come neutralizzazione ma che ha un unico vero nome: sopraffazione. Che sempre più spesso colpisce chi non è in grado di difendersi, di reclamare i propri diritti.

Mentre stavo preparando la cena mi è arrivata una telefonata: «Ila - mi viene subito detto - guarda il Tg! Guarda quel video. Guardalo per favore». Avevo già la tv accesa. Sono rimasta inchiodata lì davanti. Impietrita. Col mestolo in mano ed il fiato sospeso. Una bambina di soli nove anni viene trattata come una delinquente da alcuni poliziotti che la immobilizzano in modo violento. È in crisi psichiatrica - stanno dicendo - e per questo ora le spruzzano lo spray al peperoncino in faccia mentre è già stata caricata sul sedile posteriore dell’auto di servizio.

Osservo la scena mentre quelle parole risuonano nella mia testa. Le solite scuse. Le solite versioni ufficiali che fanno torto alla intelligenza comune. Che annientano la sensibilità delle vittime e di coloro che con esse si identificano mossi da una solidarietà sociale che è sempre più merce rara. Come si può essere cosi incapaci di vedere ciò che si ha davanti? Una bambina in difficoltà, terribilmente spaventata. Come si fa a non capire che, così agendo, non si fa altro che esasperare la sua crisi di terrore infliggendole una punizione medioevale.

Solo una bambina “afro-americana” per usare un’espressione che sento ipocrita. Succede negli Stati Uniti. Già, ma non ci illudiamo. Questo modo di trattare i cosiddetti pazienti psichiatrici non ci è affatto sconosciuto. Riccardo Rasman di Trieste, Riccardo Magherini di Firenze, Vincenzo Sapia di Mirto Crosia sono stati resi inoffensivi con gli stessi metodi. Erano tutti e tre in “crisi psichiatrica”. Terrorizzati invocavano aiuto prima di morire. Sono morti in questo modo “perché dovevano essere protetti da sè stessi”. Lo Stato, in qualunque parte del mondo si trovi, non può essere questo. È possibile che da chi deve proteggerci non sia esigibile un comportamento diverso? Questi non sono incidenti ma appartengono ad una cultura che abbiamo il dovere di ripudiare.

Quella bambina, grazie a Dio, si è salvata ma altri non hanno avuto quella fortuna. Quando impareremo ad amare le persone per ciò che sono? Ad amare la verità per quanto cruda possa essere. Questa si chiama tortura. Imparando ad avere il coraggio di riconoscerla e chiamarla col suo nome forse potremo davvero sconfiggere questa cultura di violenza e sopraffazione.

Tratto da: lastampa.it

Foto © Imagoeconomica

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