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di Massimo Giannini
Ora che è finita possiamo dirlo: a poco più di due mesi dal voto Usa, i quattro giorni della Convention repubblicana sono stati una cavalcata nell’Apocalisse. Una rincorsa frenetica e nevrotica nel cuore di una nazione in fiamme e mai tanto divisa, impaurita, arrabbiata. Un’escalation mai tanto esasperata di anatemi biblici e veleni ideologici, di violenze verbali e proteste sociali. La politica svilita a Washington, dove il presidente più cinico e irresponsabile di sempre ha inoculato altre tossine nelle vene del Paese, inscenando il suo “The Apprentice - Law & Order” falsamente securitario, aizzando le minoranze afroamericane alla ribellione razziale e poi “spacciandosi” alle maggioranze bianche come l’unico garante della pacificazione nazionale. La giustizia violata a Kenosha, dove un altro nero è caduto, stavolta non soffocato dal ginocchio letale della legge ma paralizzato dalla pistola facile della polizia. La pandemia negata negli Usa, dove il “commander in chief” del partito negazionista a stelle e strisce si mette la mascherina non sulla bocca ma sugli occhi, per non guardare l’abisso dei 180 mila morti per coronavirus. Pensavamo di aver visto già tutto ai tempi di Bush figlio, tra le vere “armi di distrazione di massa” inventate a uso propagandistico dal principe delle tenebre Karl Rowe e le finte “armi di distruzione di massa” inventate a uso bellico per giustificare la “Desert Storm” contro Saddam. Invece quella era roba da dilettanti, e al confronto con il giovane Donald di oggi il vecchio George W. di allora pare Abramo Lincoln.
Può darsi davvero che la tambureggiante e angosciante crociata di Trump contro i nuovi eserciti del male gli abbia dato una spinta nei sondaggi, fino a recuperare punti sullo sfidante “Sleepy Joe” Biden.
Maciò che impressiona, al di là dei numeri, è quello che non un pericoloso bolscevico come Bernie Sanders ma un conservatore “europeo” come Giuliano Ferrara definisce il “dramma americano”. Si consuma nel silenzio imbarazzato e imbarazzante dell’Europa, che non sa scegliere perché non vuole rischiare. Mentre sono evidenti le responsabilità politico-sociali di quello che sta avvenendo nella più grande e importante democrazia del pianeta. E sono avvilenti le fragilità etico-morali di chi, per astuzia o per ignavia, si nasconde dietro alla solita foglia di fico del “terzismo”. I fatti di questa settimana lo dimostrano. Al di là delle note da “scontro di civiltà” suonate dalla grancassa dei Gop, gli Stati Uniti non sono sull’orlo di una sanguinaria rivoluzione comunista, che richiede la repressione e la riaffermazione di un partito repubblicano in armi. Le rivolte dopo il ferimento di Jacob Blake e le manifestazioni per il 57esimo anniversario del “I have a dream” di Martin Luther King sono state pacifiche. Chi è sceso in piazza ha chiesto diritti, non colpi di Stato.
Trump non può ammetterlo, perché se lo facesse depotenzierebbe il suo storytelling da “guerriero alla Casa Bianca”, come lo definisce orgogliosa la figlia Ivanka, capofila di un “partito-famiglia” che postula fede cieca nelle virtù taumaturgiche e apotropaiche del patriarca. Infatti non c’è solo lui, che semina odio e menzogna nelle praterie fisiche e mediatiche di un’America incattivita. Sono tanti, alle sue spalle, i cavalieri di questa Apocalisse. Gianni Riotta ce li ha raccontati come meglio non si poteva. C’è Mike Pence, che dice: “Non sarete mai al sicuro nell’America di Biden”. C’è Kellyanne Conway, che avverte: “Più caos e anarchia regnano in strada, più chiara sarà la scelta del candidato migliore per la legge e l’ordine”. C’è Matt Gaetz, che tuona: “Gli estremisti Politico-Corretti vi strapperanno le armi, svuoteranno le prigioni, vi chiuderanno in lockdown a casa, invitando nel vostro quartiere i gangster della banda MS-13”. C’è Kimberly Guilfoyle, che ammonisce: “Vogliono distruggere tutto ciò che amiamo”. Ci sono i coniugi Mark e Patricia McCloskey, che un mese fa a Saint Louis hanno “presidiato” con i mitra la loro villetta al passaggio dei cortei pacifici di “Black lives matter” e che oggi profetizzano: “I militanti marxisti-progressisti-radicali minacceranno anche voi, nella quiete del vostro quartiere”. E alla fine c’è persino Melania, la first lady riluttante che invece stavolta scende in campo a fianco del marito, sfoggiando un tailleur verde oliva di foggia militaresca, e Vanessa Friedman, sul New York Times, si chiede: “È pronta per la battaglia, ma per combattere quale guerra?”. Invece la guerra c’è, Donald l’ha dichiarata e il suo esercito di volonterosi carnefici lo segue, per sconfiggere i “nemici eversori” che vogliono “instaurare una dittatura castrista”.
Queste non sono solo elezioni, ma anche “lezioni americane”. Nel marketing politico trumpiano spaventa la quantità di spregiudicata manipolazione della realtà e della verità. È un virus mortale per la convivenza civile e democratica. Ma sbaglia chi pensa che il morbo abiti solo oltreoceano: in misura diversa, ci riguarda tutti. David Brooks, sempre sul New York Times, descrive un Trump che surfa sull’onda delle paure del “forgotten man”. L’aveva già fatto 4 anni fa, ma ora estremizza e lavora sulla “sindrome del mondo medio”, elaborata negli Anni Settanta da George Gerbner. La tesi fondamentale è che in tempi di crisi gli individui, anche grazie al bombardamento televisivo, sono inclini a pensare che il mondo sia un posto molto più pericoloso e violento di quello che è. Per conquistarli basta nutrirli quotidianamente delle stesse paure.
La polarizzazione selvaggia della contesa elettorale nasce da qui. I fanatici del “mondo medio” di destra e di sinistra, secondo Brooks, ne traggono mutui vantaggi. Il caos trumpiano giustifica e amplifica la mobilitazione a sinistra, che a sua volta giustifica e amplifica l’autoritarismo trumpiano a destra. Così il circolo vizioso si avvita su se stesso. Qualcuno alla fine la spunta, ma in prospettiva il gioco è a somma zero per la democrazia, perché nel frattempo lo scontro avrà prodotto la cancellazione di una politica “normale”, lo svuotamento dell’area moderata, il degrado della moralità pubblica. È “lo stile paranoico della politica americana”, come ha scritto Riotta, citando Richard Hofstadter: rabbia e rancore, radicalizzazione del sé e demonizzazione dell’altro. Una deriva che abbiamo già conosciuto anche noi negli anni di Berlusconi, che spaccò in due l’Italia trascinandola in una campagna contro il comunismo in un Paese in cui i comunisti non avevano mai governato. Ma anche il Cavaliere di Arcore, rispetto al tycoon di New York, oggi sembra una mammoletta.
Per questo, nonostante le sue imposture semantiche, Trump va ascoltato con grande attenzione. Il 45esimo presidente non è affatto un incidente nella Storia, inspiegabile e irripetibile. Con la sua misoginia e il suo razzismo, con il suo posticcio “Make America Great Again”, è e resta lo specchio, deformato quanto si vuole, di una Nazione che in lui comunque si riflette. E che per questo, qualunque sia l’esito del voto, lascerà tracce profonde nel corpo di quella democrazia. E forse anche nelle nostre, perché l’agente patogeno è contagioso, come dimostrano Bolsonaro e Orban, Erdogan e Putin. Non sappiamo chi vincerà la sfida del 3 novembre. Trump potrebbe rifarcela, perché in genere decide l’economia e l’ultima svolta della Federal Reserve può dargli una mano. Ma sappiamo che mai come stavolta quel tornante della Storia può cambiare il cammino dell’America, dell’Europa, del mondo. E sappiamo che mai come stavolta è vero quel che Philip Roth scrive in “Complotto contro l’America”. Taylor, amico della famiglia Roth, racconta il famoso aneddoto di Thomas Riley Marshall, vice di Woodrow Wilson tra il 1912 e il 1920, che al Senato dice agli scontenti: “Sapete di cosa ha bisogno questo Paese? Di un buon sigaro da 5 cent”. E il padre dell’io narrante lo corregge: “Sapete di cosa ha bisogno, oggi, questo Paese? Di un altro presidente”.

Tratto da: La Stampa del 30 agosto 2020

Foto © Imagoeconomica

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