di Lorenzo Frigerio
Il calendario della memoria e dell’impegno può giocare brutti scherzi, quando a distanza ravvicinata di pochi giorni si ricordano due vittime che hanno profili professionali e vite molto simili, tanto da poter essere descritte con le stesse parole.
È questo il caso di Anna Politkovskaja e Daphne Caruana Galizia: la prima uccisa all’interno del palazzo in cui abitava il 7 ottobre del 2006 a Mosca, mentre rientrava a casa; la seconda saltata per aria mentre con la propria vettura aveva appena lasciato l’abitazione di famiglia, nelle campagne alle porte di Bidnija, nel nord dell’isola di Malta.
Anna si afferma nella sua professione, fin dai tempi della perestrojka di Michail Gorbačëv, quando la stampa nazionale può giovarsi di libertà fino ad allora sconosciute che permisero il disvelamento degli errori e delle atrocità commesse dal sistema sovietico per decenni.
Il repentino tracollo dell’economia, messa a dura prova da una terapia choc neoliberista volta a conseguire lo status di libero mercato, causa nel breve giro di pochi anni un’imprevista involuzione democratica, in quanto una nazione affamata e stanca in cambio di un effimero benessere è pronta a sacrificare la piena affermazione dei diritti della persona, compresa la libertà di parola. I nuovi oligarchi privatizzano le imprese di Stato, nella maggior parte dei casi con manovre illecite e finanze criminali, finendo con il consegnare la Russia a Vladimir Putin, potente uomo degli apparati dei servizi segreti.
La guerra in Cecenia, che la Politkovskaja si trova quindi a raccontare con coraggio dalle colonne della “Novaja Gazeta”, è una fedele cartina di tornasole del regime instaurato da Putin, dove le poche voci libere sono messe in condizione di non nuocere, se serve anche con la violenza, praticata a più riprese, senza riguardo per donne e bambini, con la scusa di reprimere il terrorismo islamico.
Alle minacce ripetute e circostanziate si affiancano anche le offese in privato e in pubblico che vengono rivolte ad Anna, sperando di fiaccarne la resistenza. La sua spietata esecuzione coglie di sorpresa solo quanti non hanno visto crescere nei suoi confronti l’odio di un regime basato sulla corruzione.
I processi effettuati in Russia hanno visto imputati alcuni manovali del crimine e uomini dei servizi segreti, ma non sono riusciti fare piena luce sull’omicidio di Anna, tanto da ricevere nel luglio del 2018 una condanna formale da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per non “avere messo in atto le indagini appropriate per indentificare i mandanti”.
A legare le vicende umane e professionali di Anna Politkovskaja e Daphne Caruana Galizia è un unico filo rosso, a distanza di più dieci anni.
Anche in questo caso l’insofferenza del regime e di una parte della popolazione che lo sostiene monta lentamente ma inesorabilmente nei riguardi della giornalista che sul blog “Running Commentary” scrive della corruzione che infesta Malta, tra scandali finanziari e politici e piccole illegalità diffuse.
Le offese che Daphne riceve quotidianamente sono amplificate nell’era dei social media e diventano ancora più pesanti e insopportabili, tanto da costringere la donna spesso e volentieri a limitare le sue uscite pubbliche. Non sono solo semplici cittadini ad insultarla pesantemente, ma ci sono anche uomini di stato pronti a colpire il libero esercizio della sua professione, chiamandola a rispondere pretestuosamente nei tribunali di quanto con dovizia di particolari documenta. Succede più volte, tanto in occasione dello scandalo internazionale dei “Panama Papers”, quanto in quello dei traffici petroliferi sottobanco da e per Malta o ancora nell’incredibile vicenda della compravendita della cittadinanza europea, tramite l’acquisto di passaporti maltesi che finiscono nelle mani di personaggi quanto meno discutibili, per non dire dai profili criminali conclamati.
La pressione si fa insostenibile, ma Daphne, come era accaduto ad Anna, non mostra all’esterno alcun segno di cedimento. Quello che invece avviene all’interno delle famiglie delle due giornaliste possiamo solo immaginarlo, visto il crescendo di tensioni, cause e attacchi a cui vengono sottoposte prima di essere eliminate fisicamente.
La morte arriva per Daphne con una carica d’esplosivo piazzata all’interno della sua vettura che salta per aria, appena abbandonata la casa di famiglia. A nulla serve il tentativo disperato di Matthew, uno dei figli, corso immediatamente sul luogo della deflagrazione.
Daphne e Anna, orgogliosamente faziose
Daphne e Anna: due donne, due giornaliste che non hanno avuto paura di esercitare fino in fondo la loro professione, anche quando tutto ciò ha comportato per entrambe lo sconfinamento in una terra di nessuno, dove la vita non vale più nulla e dalla quale non è possibile fare ritorno.
Entrambe sono state uccise nella prossimità dei luoghi reputati erroneamente più sicuri, a pochi passi dalle proprie abitazioni, dopo essere state pedinate chissà per quanti giorni e, a loro insaputa, violate nell’intimità dei propri affetti più cari.
Entrambe hanno perso la vita, quando è stato chiaro ai mandanti dei loro assassini che non si sarebbero piegate di fronte a minacce o lusinghe, ma che anzi ogni tentativo di chiudere la loro bocca avrebbe avuto l’effetto contrario.
Anna e Daphne sono cadute nell’adempimento di un imperativo etico fondamentale: fare il proprio dovere, costi quel che costi, perché in questo risiede l’essenza della dignità umana, per riprendere un’espressione cara a Giovanni Falcone che a sua volta citava John Fitzgerald Kennedy.
Purtroppo ancora oggi in larga parte dell’opinione pubblica dei loro paesi, Daphne e Anna sono considerate vittime in qualche modo consapevoli dei rischi che correvano e, in quanto tali, sostanzialmente colpevoli di quanto è successo loro. Se la sono andata a cercare in qualche modo, come ebbe a dire in modo del tutto infelice Giulio Andreotti di Giorgio Ambrosoli.
Nel dibattito pubblico in corso a Malta è scontro quotidiano tra chi difende la memoria della blogger, con parole e gesti e quanti si schierano a difesa del Governo, definendo faziosa la giornalista uccisa. Ogni giorno fiori, foto, cartelloni e candele compongono un memoriale spontaneo nei pressi del monumento che ricorda il Grande Assedio nel 1565 dell’isola da parte degli Ottomani, in centro a La Valletta e ogni notte lo stesso viene costantemente smantellato per ordine delle autorità locali.
L’accusa di faziosità è forse il tarlo più subdolo che mina la credibilità di Anna e Daphne, ma occorre forse capirsi. Non crediamo a quanti dicono che il giornalismo è autentico solo quando riesce a separare i fatti dalle opinioni, perché già la selezione dei fatti da raccontare implica una scelta orientata dai propri valori e ci mancherebbe che non fosse così.
Anna, vista la credibilità raggiunta negli anni, avrebbe potuto scegliere cosa raccontare e non era tenuta a parlare della Cecenia, per definizione materia ovviamente ad alto rischio, visto il conflitto in essere. La narrazione di una guerra scomoda al regime è stata fin dal principio una scelta eticamente orientata. I fatti nudi e crudi di una lotta armata casa per casa, combattuta ad armi impari ai danni dei soggetti più deboli come bambini e donne, erano già delle opinioni faziose, se così vogliamo dire.
E lo stesso vale per Daphne. Dare spazio sul suo blog alle denunce di cittadini che avevano perso fiducia nelle pubbliche istituzioni, affidando al libero giornalismo l’ultima speranza di cambiamento, era per lei il modo più vero di esercitare fino in fondo la propria professione, al servizio dei tanti che vedevano i propri diritti conculcati dal potere. Raccontare gli scandali di un potere sfacciato e senza limiti, la metteva in una condizione di insanabile contraddizione con un contesto sociale, in cui i suoi concittadini erano e sono in larga parte attratti dai forti ricavi che oggi pongono l’isola maltese al centro di grandi manovre corruttive e delle attenzione di network criminali straordinariamente potenti.
Se Anna e Daphne erano faziose, avevano tutte le ragioni per essere orgogliosamente partigiane, perché avevano preso la parte degli ultimi, la parte di chi non ha voce per chiedere i propri diritti. Ricordiamocene quando reclamiamo un’informazione che non sia faziosa, ma al servizio della collettività.
Chiediamoci cosa ha voluto dire per Anna e Daphne “essere giornaliste” prima ancora che “fare le giornaliste”, fino in fondo, senza cedere a compromessi e minacce, qualunque fosse il sacrificio da sopportare, costasse quel che costasse, soltanto perché in questo risiedeva l’essenza della loro dignità umana, la natura più autentica del loro essere donne del proprio tempo.
(7 ottobre 2019)
http://vivi.libera.it
Tratto da: liberainformazione.org