Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.
di Paolo Flores d'Arcais
Il caso Palamara rivela che c’è del marcio nella Danimarca della magistratura. E non si tratta di qualche mela, ma di una vera e propria questione morale. Una crisi degenerativa che dovrebbe imporre le dimissioni di tutti i coinvolti e riforme strutturali – a cominciare dalla riforma radicale dell’elezione al CSM – per contrastare il verminaio e non far piombare le toghe nel discredito presso i cittadini.

Un’indagine della magistratura di Perugia, ancora in corso, ha messo in luce, al di là dei reati penali che eventualmente verranno contestati, “gravissime violazioni di natura etica e deontologica”, “inammissibili interferenze nel corretto funzionamento del Csm”, e insomma “l’esistenza di una questione morale nella magistratura”. I fatti, giustamente stigmatizzati con i giudizi sopra riportati, sono purtroppo ormai accertati, attraverso le registrazione tramite “trojan”: riunioni clandestine nelle quali Luca Palamara, leader per anni e anni della corrente Unicost, discuteva con altri magistrati (quattro si sono autosospesi dal Csm) e soprattutto con Cosimo Maria Ferri, dominus per decenni della corrente Magistratura indipendente e ora deputato Pd (sottosegretario alla Giustizia nei governi Letta, Renzi, Gentiloni), e con Luca Lotti, onorevole del Pd e braccio destro di Renzi, sulle nomine dei capi delle Procure dell’intero stivale.

Qualche spudorato dice che i rapporti tra politica e magistratura sono normali e anzi doverosi: se i membri del Consiglio superiore della magistratura, per due terzi magistrati e per un terzo di nomina politica, discutono fra loro in Csm, va da sé che fanno solo il loro lavoro. Se ne discutono invece con Palamara, che dal Csm è fuori, e soprattutto con due onorevoli che sulla scelta dei Procuratori non hanno alcuna voce in capitolo, allora realizzano esattamente “inammissibili interferenze nel corretto funzionamento del Csm” e “gravissime violazioni di natura etica e deontologica”, come denuncerà il tempestivo documento dell’Associazione nazionale magistrati, votato all’unanimità il 5 giugno dal proprio comitato direttivo centrale.

Una delle nomine in ballo, quella di peso massimo, è la direzione della Procura di Roma. Dove Lotti è indagato. Ci vuole tutta la bulemica impudenza di Matteo Renzi, perciò, per dire che “sull’inchiesta del Csm ho visto tanta ipocrisia solo per attaccare i nostri”. I nostri. Puerilità che vale quasi una confessione.

Del resto è un europarlamentare Pd appena eletto, l’ex Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, ad aver chiesto con toni ultimativi al Partito Democratico “finora silente, di prendere una posizione di netta e inequivocabile condanna dei propri esponenti coinvolti”, visti i comportamenti “assolutamente certi” per “manovrare sulla nomina del successore di Giuseppe Pignatone”, dove il riferimento a Luca Lotti e Cosimo Maria Ferri è lapalissiano. Con l’aggiunta di una denuncia senza mezzi termini del governo Renzi come causa prima della degenerazione: “nel 2014 il governo Renzi, all’apice del suo effimero potere, con decreto legge, abbassò improvvisamente, e senza alcuna apparente necessità e urgenza, l’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Quella sciagurata iniziativa era palesemente dettata da un duplice interesse: liberare in anticipo una serie di posti direttivi per fare spazio a cinquantenni rampanti, in qualche caso inseriti in ruoli di fiducia di ministri, alla faccia della indipendenza dei magistrati dalla politica”. E a “tentare di influenzare le nuove nomine in favore di magistrati ritenuti (a torto o a ragione) più ‘sensibili’ di alcuni loro arcigni predecessori verso il potere politico. Il disegno è almeno in parte riuscito perché da allora, mentre il Csm si affannava a coprire gli oltre mille posti direttivi oggetto della ‘decapitazione’, si scatenava la corsa selvaggia al controllo dei direttivi, specie delle procure. Il caso Palamara ne è, dopo cinque anni, la prova tangibile, sebbene temo sia soltanto la punta dell’iceberg”.

Insomma, c’è del marcio nella Danimarca della magistratura, e non si tratta di qualche mela, ma di una vera e propria “questione morale nella magistratura”, come denunciato il 3 giugno dall’assemblea di 400 magistrati del distretto dell’Anm di Milano. Del resto Davide Ermini, vicepresidente del Csm e in stretto contatto col capo dello Stato che del Csm è presidente, parlerà di “giochi di potere e traffici venali”.

Sarebbe perciò ovvio, se la decenza avesse corso, che i quattro magistrati “autosospesi” (una misura che rasenta l’aria fritta), si fossero ormai dimessi. Ma la loro corrente, dopo aver votato in sede Anm tutte le durissime frasi sopra riportate, ha deciso, almeno nella sezione della Cassazione, un ignominioso voltafaccia: “piena fiducia”, “totale solidarietà”, tornino a sedersi nel Csm. Se si dimettessero, infatti, due dei quattro subentranti apparterrebbero alla corrente/non corrente di Pier Camillo Davigo, che dell’intransigenza contro la degenerazione ha fatto la sua ragione d’esistenza.

Allora meglio il marcio? È questo che volete, signori magistrati di Magistratura indipendente? Le altre correnti, malgrado alcune abbiano loro esponenti coinvolti, hanno immediatamente reagito, dichiarando chiusa l’esperienza di direzione unitaria nell’Anm, chiedendo la convocazione immediata degli organismi direttivi, e denunciando “le gravi responsabilità di fronte alla magistratura e al Paese” che Magistratura indipendente, se continuasse su questa strada, si assumerebbe, col rischio di creare “un incidente istituzionale senza precedenti [che] potrebbe condurre all’adozione di riforme dell’organo di autogoverno dal carattere ‘emergenziale’”. In realtà è anche peggio. I partiti tutti, infatti, tranne il M5S (ma qualcuno tra i loro è sensibile alle sirene), non vedono l’ora di realizzare il disegno non riuscito a Berlusconi: separare le carriere e mettere procure e pubblici ministeri al guinzaglio del potere politico.

Aggiungiamo che alla ultimativa richiesta di Franco Roberti Nicola Zingaretti ha risposto con un inverosimile “Luca [Lotti] mi ha assicurato che non ha commesso alcun atto di illegalità”, argomento inoppugnabile che palesemente taglia la testa al toro, e il quadro (allo stato attuale) è completo.

Abbiamo una crisi degenerativa della magistratura e della sua autonomia, abbiamo una corrente che pur di non perdere scranni di potere (Magistratura indipendente, con Cosimo Maria Ferri per decenni suo dominus) se la prende con la “faziosa campagna di stampa” anziché con l’immondo traffico delle indulgenze denunciato dal moderatissimo vicepresidente Ermini (che in questi giorni assai improbabilmente apre bocca senza il previo consenso del Capo dello Stato, che del Csm è presidente).

Abbiamo l’urgenza improcrastinabile delle dimissioni di tutti i coinvolti e della sostituzione secondo le attuali modalità di legge, che fortunosamente e fortunatamente, per provvidenza divina (noi atei preferiamo chiamarla “il caso”) vedrebbero al Csm una iniezione di autonomia e intransigenza morale. Abbiamo la necessità che le nomine in ballo avvengano sotto i riflettori, con tutta la discontinuità necessaria rispetto a troppe opacità di alcune vicende recenti (la nomina di Lo Voi a Palermo, in barba a tutti i criteri statuiti, e per volontà catafratta di Giorgio Napolitano, è solo l’esempio più eclatante).

Abbiamo, last but not least, la necessità delle riforme strutturali che rendano sempre più arduo il riprodursi e il semplice allignare o anche solo germogliare del verminaio. Necessità di dimettersi dalla magistratura prima di candidarsi a cariche elettive. Proibizione di incarichi extragiudiziari retribuiti. Tanto per cominciare e per “non indurre in tentazione”. Abrogazione delle controriforme Castelli (Lega al governo con Berlusconi) del 2005 e Mastella 2006 (centro-sinistra con Prodi), che abrogano l’ultraventennale autonomia dei sostituti procuratori, facendo del Procuratore Capo un vero e proprio dominus anziché primus inter pares (come i Borrelli, Caponnetto, Caselli delle migliori stagioni della giustizia eguale per tutti), oltre a numerose altre nefandezze di quella stagione di inciucio.

E abbiamo, davvero ineludibile, la riforma radicale dell’elezione al Consiglio superiore della Magistratura.

Credo che ricorrere al sorteggio per i componenti magistrati (i due terzi) sia la soluzione migliore. Eventualmente stabilendo che sia necessario avere una certa anzianità di servizio (cinque o dieci anni) per conoscere i colleghi. I magistrati sono solo alcune migliaia. Se fanno seriamente il loro lavoro, aggiornandosi sulle sentenze oltre che sulle leggi, e partecipano anche alla ricca vita associativa, culturale e ideale, che le “correnti” dovrebbero garantire, praticamente si conoscono tutti. Il loro status costituzionale li mette tutti sullo stesso piano, sono “soggetti soltanto alla legge” e “inamovibili”, si “distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (artt. 101 e 107 della Costituzione). Che necessità c’è che siano dei “rappresentanti”, con l’inevitabile lotta per il consenso e i suoi strascichi? Ciascuno può garantire l’autonomia della magistratura nel Csm, esattamente come ciascuno deve garantire il cittadino, che entri in un tribunale come accusato o parte lesa, che “la legge è eguale per tutti”. Il sorteggio ha una nobile tradizione democratica, fin dai primordi greci. Sorteggiati sono i cittadini comuni, in maggioranza nelle Corti d’Assise italiane, che giudicano i reati da ergastolo (negli Usa è l’intera giuria ad essere sorteggiata).

Resta la componente di nomina politica (un terzo). Qui la riforma appare più ardua, visto il precipitare verso il basso della qualità dei politici ad ogni generazione, che la riforma dovrebbero oltretutto votare. La cosa migliore sarebbe farli eleggere fra gli ex presidenti della Corte Costituzionale, o misure analoghe.

Perché una magistratura autonoma e degna del nome, inattaccabile moralmente, soggetta solo alla legge, cioè alla Costituzione repubblicana e ai suoi valori, è il bene democratico più prezioso, il “potere dei senza potere”. Contro questa magistratura ha iniziato il suo lavoro eversivo il potere politico con Berlusconi, proseguito poi con i ministri della giustizia bipartisan e il susseguirsi di controriforme quasi identiche, governasse il centro-destra o il centro-sinistra. Fino a che una parte della magistratura è diventata soggetto attivo nell’opera di “normalizzazione” che ha umiliato “la legge eguale per tutti” a favore dei soliti “eccellenti” e impuniti.

Ora le vie di mezzo non sono più possibili. O la magistratura troverà la forza dentro di sé per pulire le stalle di Augia con erculea intransigenza, o piomberà nel discredito presso i cittadini, come già per le forze politiche e il resto dell’establishment, quel kombinat affaristico corruttivo che trascina l’Italia verso il disastro, di cui anche la magistratura finirebbe o comunque rischierebbe di diventare parte.
(10 giugno 2019)

Tratto da: temi.repubblica.it/micromega-online

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos