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di Simona Zecchi
Operazione Tacito: l'omicidio del giornalista Carmine Pecorelli e i legami con il Caso Moro. Perché la Procura di Roma ha riaperto l'inchiesta

A 40 anni dall'omicidio del giornalista Carmine Pecorelli e in concomitanza con "i giorni di Moro" è necessario che si riapra un processo affinché se ne individuino i colpevoli e si possa arrivare ad alcune verità sui casi che hanno attraversato il fatto. Una vittima da tempo privata della dignità che questo termine comporta. A marzo del 2019 la Procura di Roma ha riaperto l'inchiesta dopo l'ultimo sigillo apposto sul caso a Perugia nel 2003. Estrema destra la nuova pista, ma le armi sono tutte "figlie" di un'unica costante.
20 marzo 1979. Con quattro colpi di pistola calibro 7.65 munita di silenziatore, poco dopo avere lasciato la redazione del settimanale Op, Osservatorio politico, viene ucciso in Via Orazio a Roma il giornalista Carmine Pecorelli. Fa in tempo, Mino, a cominciare la manovra per uscire dal parcheggio. Quando la sua auto si accosta al marciapiede, un uomo con un impermeabile bianco si china verso il finestrino e spara. I proiettili sono due di marca Fiocchi e due di marca ‘Gevelot’, abbastanza rari in Italia questi ultimi. Pecorelli è colpito in bocca, alla testa e al torace. Il suo corpo verrà trovato pochi minuti dopo, alle 20.45, riverso sul sedile anteriore della sua Citroen, con la portiera spalancata.
Il corpo risulterà poi spostato dalla stessa sua segretaria di redazione, Franca Mangiavacca, con cui era uscito dalla redazione e da cui si separerà di lì a breve. La Mangiavacca muoverà anche i bossoli dei proiettili inquinando così del tutto la scena del crimine. Un’inchiesta affidata ai magistrati di turno, dottor Mauro e Domenico Sica che provvedono subito a perquisire casa e ufficio del giornalista, porta al coinvolgimento di personaggi come Massimo Carminati, Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, ma tutti vengono prosciolti per non avere commesso il fatto il 15 novembre 1991. L’incriminazione soprattutto di Viezzer, Fioravanti e Gelli era scattata grazie a delle dichiarazioni di un pentito di estrema destra Valter Sordi. (Sotto, la scena dell’omicidio Pecorelli tratta dal film di Paolo Sorrentino, “Il Divo”).



Un lungo processo senza colpevoli. Quella di Carmine Pecorelli, la cui figura soltanto di recente comincia a essere lentamente rivalutata, da “ricattatore delle notizie” a giornalista che rivelava fatti inediti e poco noti, notizie-bomba, è una delle storie giudiziarie italiane più lunghe. Il PM che istruì il processo nel ’96 nella sua relazione ha scritto:

"E’ stato un giornalista appassionato e sfortunato. La sua rivista era la sua vita. Il primo colpo da cui è stato raggiunto lo ha centrato alla bocca, lo ‘strumento degli infami’. Ma se fosse stato colpito alla mano, quella con cui reggeva la penna, sarebbe morto lo stesso, perché la penna era la sua vita".

Dal 1993, dopo il primo proscioglimento, anno dell’iscrizione a giudizio di Giulio Andreotti accusato di essere il mandante dell’omicidio, l’inchiesta giudiziaria passa alla procura di Perugia perché le dichiarazioni di alcuni pentiti coinvolgono il magistrato romano Claudio Vitalone fedelissimo di Andreotti. Fino al 1999 è un susseguirsi di nuove accuse, ritrattazioni e nuovi indagati. Il 24 settembre di quell’anno la Corte di Assise perugina assolve tutti gli imputati che nel frattempo oltre ad Andreotti e Vitalone erano aumentati (i boss Badalamenti e Calò, un altro mafioso Michelangelo la Barbera e lo stesso Carminati). Nel 2002, la corte d’appello di Perugia condanna a 24 anni il senatore a vita e Badalamenti mentre assolve gli altri. Infine, nel 2003 la Cassazione rimescola tutto: tutti assolti di nuovo, il caso Pecorelli resta aperto. Fino al 2019, quando grazie a un’intervista del sito Estreme Conseguenze a Vincenzo Vinciguerra - l’ex membro di Avanguardia nazionale e Ordine Nuovo in carcere a vita - e alla richiesta del legale di Rosita Pecorelli, sorella del giornalista ucciso, la procura di Roma riapre nuovamente le indagini. A indagare su quanto segnalato dall’avvocato Valter Biscotti alla Procura è ora la Digos che sta svolgendo nuovi accertamenti balistici su alcune armi sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale, Domenico Magnetta. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 7,65 e di quattro silenziatori artigianali. Secondo quanto riferito da Vinciguerra già nel 1992, in un verbale ritrovato sempre da Estreme Conseguenze, l’arma che era stata tenuta in un deposito dal Magnetta era la stessa usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli.

"Adriano Tilgher era preoccupato perché Domenico Magnetta lo stava ricattando. Magnetta pretendeva di essere scarcerato… minacciava di consegnare le armi che aveva avuto in deposito dal gruppo di Avanguardia nazionale. E fra quelle armi c’era la pistola usata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli".

Avanguardia Nazionale. L’organizzazione neo-fascista è stata sciolta nel 1976 dopo che una sentenza del Tribunale di Roma aveva condannato i suoi aderenti in base alla legge Scelba che vieta la ricostituzione di partiti neofascisti dal ’52 e di cui oggi si parla molto. Magnetta, oggi speaker di Radio Padania ai microfoni di Radio Padania Libera, muove i primi passi insieme al boss di “Mafia Capitale” Massimo Carminati, come spiega L’Espresso.
Magnetta ha anche fatto parte dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari), l’organizzazione armata di Valerio e Cristiano Fioravanti, e Carminati.
Alcuni punti oscuri della vicenda e il libro di Valter Biscotti Pecorelli deve morire. Le inchieste a cui aveva lavorato e stava lavorando Mino Pecorelli erano numerose - la più nota mai pubblicata e di cui emerse la bozza di copertina dopo la morte è quella relativa ad Andreotti, i famosi “Assegni del Presidente”. E i suoi rapporti con i più svariati ambienti, dalla P2 (alla quale fu anche iscritto ma che poi mise alla berlina nei suoi articoli insieme a Licio Gelli) alla magistratura, la Guardia di Finanza, i servizi segreti e i Carabinieri gli avevano attirato molte critiche e diffidenze, tanto da rendere difficile la sua collocazione nell’alveo dei giornalisti uccisi. Solo nel 2008, l’Unione dei cronisti italiani lo inserì nel libro che rievocava la vita e l’impegno di tutti i giornalisti italiani che nel dopoguerra sono stati uccisi o feriti “per la loro fedeltà all’imperativo etico professionale di riferire la verità sostanziale dei fatti”. Poi più nulla e il silenzio tornò a calare fino appunto al 2019 con la notizia dell’apertura della nuova inchiesta.
A caratterizzare l’intero procedimento giudiziario sul caso è stato l’approccio della magistratura quasi tutto improntato sui soli moventi. E’ quello che sostiene l’avvocato Valter Biscotti nel suo libro da poco dato alle stampe Pecorelli deve morire (Baldini+Castoldi 2019, pagg. 244 Euro 17,00).
Non si tratta di una inchiesta ma del resoconto che Biscotti fa della sua esperienza come legale di uno degli imputatipecorelli deve morire al tempo (il boss di Cosa Nostra con tentacoli a Roma negli anni 70-80 Pippo Calò). Oggi l’avvocato rappresenta la sorella del giornalista ucciso Rosita. Nel libro anche elementi inediti o poco considerati durante il periodo istruttorio e successivamente. Come a esempio l’identikit accompagnato da un verbale che riporta la testimonianza anonima sulla presenza di un uomo visto aggirarsi nei pressi della redazione di OP in Via Tacito, quartiere Prati di Roma. Un identikit che riporta un particolare curioso: la provenienza meridionale dell’uomo. Sull’identikit torneremo presto. Il lavoro dell’avvocato Biscotti è importante, sebbene non del tutto condivisibile, per molte ragioni: il suggerimento concreto e prezioso di ricominciare dagli elementi giudiziari, dai fatti e non dai moventi; il dubbio che il pentito Tommaso Buscetta non abbia detto tutto il vero o che abbia mescolato verità e bugie vista la credibilità di cui ormai godeva; la possibilità di altre piste che sono indicate. Anche perché fare tabula rasa di un caso così complesso e manipolato resta l’unica cosa da compiere per chi vuole andare a fondo alla storia tutta.
Nell’ottobre del 1987, in piena istruttoria, succede un fatto che contribuisce a far affondare l’inchiesta. Il reperto contenente i bossoli rinvenuti sul luogo dell’omicidio viene manomesso e uno dei bossoli Gevelot sostituito. I giornali (Corriere della Sera, Il Giornale ma anche agenzie di stampa specifiche come Stampa Giudiziaria) parlano di un’azione della provvidenza visto che quel bossolo sostituito avrebbe portato alla incriminazione di Fioravanti, Viezzer e Gelli. Ma la verità è che l’azione è doppiamente depistante e vedremo perché a breve.
La questione calabrese. Preso da solo l’elemento dell’identikit può anche non voler dire nulla o poco, o può rivelarsi soltanto una suggestione tanto più che la fonte della testimonianza è rimasta anonima. A stendere il verbale sull’identikit però fu il colonnello Antonio Varisco, ucciso il 13 luglio 1979 da un commando brigatista, pochi giorni prima della scoperta di un covo nella località della Sabina non lontano dal lago della Duchessa il cui comunicato era stato usato per depistare. Particolare importante da prendere in considerazione è una delle auto utilizzate per l’agguato al colonnello che viene lasciata in via Ulpiano, a Roma, accanto a un negozio di tessuti usati la cui titolare era Ina Maria Pecchia intestataria del covo di Torre in Sabina vicino al lago che, come proverà una inchiesta di quel periodo, era frequentato da terroristi e ‘ndranghetisti: il casale di Vescovìo. La Pecchia ebbe anche una relazione sentimentale con Valerio Morucci prima che questi si legò alla Faranda, fatto che qui riferiamo solo perché è utile a spiegare i legami con il caso.
Il 5 maggio 1978 Pecorelli fa scrivere sul settimanale OP riguardo alla pista calabrese del Caso Moro e a sequestro in corso:

«La pista calabrese e mafiosa parte dalla scoperta del covo brigatista di via Gradoli e dai documenti rinvenuti in quell’appartamento, che avrebbero resa possibile la scoperta quasi immediatamente successi-va dei due altri covi-deposito parabrigatisti di Torvaianica e di Licola, saldando in una ipotesi unica la nuova logica degli inquirenti. Infatti, immediatamente dopo la scoperta del deposito di armi ed esplosivi di Torvaianica, il sostituto procuratore Savia, che affiancava Infelisi nell’inchiesta, partiva misteriosamente per la Calabria, dove, si noti bene, si era già recato lo stesso Infelisi per un breve viaggio misterioso che il magistrato, costretto dalla stampa a giustificarlo, definì determinato da ragioni familiari».

La scia dei covi indicati da Pecorelli anticipa la consistenza della pista della ‘ndrangheta già abbastanza forte, che entra anche negli omicidi Pecorelli e Varisco. L’ultima persona che parlerà con il giornalista l’ultimo giorno della sua vita è un uomo entrato molto raramente nelle ricostruzioni riguardanti l’omicidio: Vincenzo Cafari.

«Uomo di raccordo tra imprenditori, faccendieri e politici. Agente di una società romana di assicurazioni, nei primi anni Sessanta Cafari entra nell’orbita dell’uomo politico più rampante di Reggio [Calabria]: Sebastiano Vincelli, classe 1930, messinese trapiantato in Calabria. E ne diventa ben presto segretario particolare. A soli 23 anni Cafari ottiene la carica di Commissario provinciale del Movimento giovanile della dc. Nel corso di questa cavalcata politica, Vincelli [a cui Cafari risponde] fatalmente entra in contatto con il mondo opaco delle famiglie mafiose e della massoneria. Secondo i magistrati – per conto della dc reggina – è lui il garante dell’affare multimiliardario riguardante il completamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Trasferisce miliardi dalle casse dello Stato alle casse delle cosche (fonte Mario Guarino, Poteri segreti e criminalità. L’intreccio inconfessabile tra ‘ndrangheta, massoneria e apparati dello Stato Dedalo edizioni 2004)».

Sull’uomo in Parlamento si appronta anche una interrogazione. Nel 1997 fu sentito dalla Procura di Perugia negando di aver visto Pecorelli il 20 marzo, ma le testimonianze sia di uno dei collaboratori di OP, Paolo Patrizi, sia di altri contestano questa posizione.

pecorelli carmine morto

Le armi della ‘ndrangheta. In un’udienza del Processo Pecorelli il boss della NCO Raffaele Cutolo che, come abbiamo scritto, ha più volte parlato del suo ruolo (mancato) nella liberazione di Moro avrà uno scambio con l’allora difensore di Claudio Vitalone, l’avvocato Carlo Taormina che cercherà di far emergere delle contraddizioni sulle sue dichiarazioni, queste:

«Mi chiese (Nicolino Selis esponente della Magliana e referente della NCO a Roma per Cutolo ndr) una pistola perché dice che dovevano ammazzare un giornalista, con il silenziatore, io non ce l’avevo, dissi: “Rivolgiti a Roma”, che Enzo Casillo, anche lui era sempre latitante, ma per poche cose, “rivolgiti ad Enzo, se non ce l’ha lui te la fai dare da Paolo De Stefano”. Punto e basta».

Paolo De Stefano è stato il capo storico della cosca omonima, ucciso durante la guerra di mafia del 1985 - cosca ai vertici di un sodalizio di una struttura riservata. Taormina chiede conto delle date di quell’incontro con Selis, visto che Cutolo lo colloca - dopo un iniziale tentennamento - a due giorni prima che Moro fosse rinvenuto senza vita. Non si comprende come mai Taormina sottolinei la “contraddizione” fra le date e il periodo di latitanza di Cutolo (5 febbraio 1978-15 maggio 1979) visto che Cutolo ha sempre affermato che la richiesta di intervenire per liberare Moro rientra nel periodo della latitanza, così come il sequestro e l’omicidio vi rientrano e così come vi rientrano sia l’incontro con Selis (presunto incontro avvenuto il 5 maggio 78) sia l’omicidio Pecorelli (20 marzo 79). E’ un fatto che la corte da questi elementi riterrà Cutolo non credibile. Perché? Intanto è chiaro che se fosse stata davvero Cosa Nostra a intervenire per ammazzare il giornalista non avrebbe certo avuto bisogno di armi di ‘ndrangheta o di altri; è altrettanto chiaro invece che nell’arsenale rinvenuto presso il Ministero della Sanità a Roma in Via Listz, custodito da un complice che lavorava al suo interno, vi confluivano armi della Banda della Magliana e armi dei Nar che a loro volta anche si servivano della ‘ndrangheta (così come a tempo debito se ne serviranno i BR e altre organizzazioni eversive minori). E’ il collante o meglio la costante, un servizio a chi ne ha bisogno. In un’udienza del processo a Perugia, i periti balistici confermano il contenuto di una consulenza compiuta nel 1984 durante la quale vennero fatto il confronto fra i proiettili ”Gevelot”, trovati nel deposito, e quelli utilizzati per uccidere Pecorelli. Dalla perizia, basata soprattutto sullo stato di usura del punzone, "emerge - riferisce la procura di Perugia - che i due proiettili ‘Gevelot’, utilizzati per uccidere Pecorelli provenivano dallo stesso lotto di cartucce al quale appartenevano anche i proiettili sequestrati presso il ministero della sanità’".
In alcune udienze di Perugia a parlare di coinvolgimento della ‘ndrangheta anche il pentito Giacomo Lauro che riferì di aver ricevuto l’incarico dell’omicidio presso la sede del Comando generale delle fiamme gialle a Roma. Lauro parlò di molte cose, anche di Cafari. Anche una delle armi requisite in Via Gradoli il 18 aprile del 78 (giorno della scoperta del covo di Via Gradoli e del mancato blitz in Torre in Sabina) è stata usata da camorristi, e proveniva dall’arsenale calabrese. Mentre altre armi rinvenute nel 2002 in una santa barbara di ‘ndrangheta sono sotto esame da parte della procura di Roma in riferimento al Caso Moro da un po’ di tempo. La questione dirimente che avviluppa tutto e ne spiega le contraddizioni è una: ognuno dei collaboratori credibili che ha raccontato la sua parte di verità in apparente contraddizione tra loro ha riferito ciò che era per ognuno di loro possibile riferire, ciò che per il livello che loro compete potevano sapere. La struttura riservata che ha operato nell’omicidio Pecorelli e nel Caso Moro, come in altri eventi, appartiene a un livello diverso dal resto dei collaboratori. E’ la forza dello schema utilizzato in questi casi.
Rileggendo le carte del processo e le testimonianze di Paolo Patrizi, a esempio, il più stretto collaboratore di Pecorelli, sono tre gli argomenti sui quali Pecorelli stava aspettando documenti importanti inediti: il memoriale Arcaini (Giuseppe, direttore dell’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio italiane - Italcasse - il cui scandalo anticipò di 15 anni Tangentopoli); il memoriale di Sindona (Michele, faccendiere mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli che indagava sul sistema da lui creato nel mondo finanziario) e qualcosa di grosso che riguardava Moro e il sequestro di Via Fani. Pecorelli aveva anticipato già alcune pagine del memoriale Moro invece. Il pezzo più importante doveva arrivare da Milano - riferirà Patrizi a caldo il 22 marzo 79 agli inquirenti - da una persona che doveva venire in aereo, ma che poi prese il treno per uno sciopero. Cosa doveva portare con sé questa persona? Patrizi risponde che non lo sapeva. In effetti Pecorelli non riferiva le cose più importanti e pericolose alla redazione.
In questo lungo excursus mancano molti tasselli che è impossibile riferire tutti qui. Quelli più importanti indicanti una nuova possibile pista, però, restano fissati qui insieme alla domanda che più preme oltre a quella sul colpevole: cosa non è riuscito a pubblicare Carmine Pecorelli, per cosa è stato ammazzato veramente?

Tratto da: lavocedinewyork.com

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