di Luciano Scalettari
Venticinque anni dopo, che cosa si sa dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Molto, e non solo su quanto è avvenuto a Mogadiscio quel maledetto pomeriggio del 20 marzo 1994, ma anche sul “prima”, su ciò che la giornalista Rai approfondiva da tempo e su quello che insieme a Hrovatin avevano fatto in quegli ultimi giorni prima di essere giustiziati, ossia raccogliere elementi e conferme sui traffici d’armi e rifiuti che erano in corso fra Italia (ma non solo) e Somalia.

E molto di sa anche sul dopo: le omissioni, le reticenze, le carte false, le bugie che hanno costellato i tentativi di raggiungere la piena verità sul duplice omicidio di Mogadiscio. Di più. Da due anni sappiamo anche del depistaggio messo in atto per incolpare un innocente, Hashi Omar Hassan (che per questo si è fatto 17 anni di carcere ingiustamente) e per far sembrare che l’agguato davanti all’hotel Amana della capitale somala sia stato messo in atto da banditelli di strada, a scopo di rapina o di sequestro. Non sono i soliti “giornalisti dietrologi” a dirlo, ma la Corte d’Appello di Perugia, nella sentenza di assoluzione del somalo condannato ingiustamente. Sappiamo pure che, qualche anno prima, nel 2005-2006, qualcuno è riuscito a prendere per il naso i parlamentari della Commissione Alpi-Hrovatin – e prima di tutti il suo Presidente Carlo Taormina – propinandogli una macchina (il fuoristrada Toyota) come quello su cui viaggiavano i due giornalisti al momento dell’agguato. Macchina che, invece, si è rivelata non essere quella, dato che a bordo il sangue di donna rinvenuto a bordo ha un Dna incompatibile con quello di Ilaria (l’ha accertato non la Commissione Taormina ma la Procura di Roma, due anni dopo, quando le fu imposto di eseguire il test dal Emanuele Cersosimo).

Fatti eclatanti, a cui si potrebbero aggiungerne molti altri: a titolo di esempio, il fatto che dei due testimoni d’accusa nei confronti di Hashi Omar Hassan, l’autista di Ilaria e Miran Sid Ali Abdi e Ahmed Ali Raghe detto Jelle, il primo, Abdi, è stato ritrovato morto una settimana dopo essere rientrato in Somalia, nel 2003, al termine del periodo di protezione che aveva ottenuto in Italia per la sua (oggi sappiamo falsa) testimonianza; l’altro, Jelle, la Polizia se l’è fatto scappare alla vigilia del processo e non è mai riuscita (dal 1998 al 2015!) a rintracciarlo. E stava in Gran Bretagna, Jelle, non a Timbuctù.

Bene. Vediamo ora, dopo questi 25 anni, che cosa è stato accertato dalla magistratura.

Nulla.

Quello che ci consegna la Procura di Roma è niente sul movente, niente sui mandanti, niente sugli esecutori materiali.

Quello che ci consegna è un innocente mandato in galera per 17 anni e tre richieste di archiviazione. L’ultima, recentissima, del 3 febbraio scorso, ancora in attesa dell’udienza e della decisione del Giudice per le indagini preliminari.

Questo è il misero bilancio sul fronte giudiziario.

Ora ci sono ben due richieste che si oppongono alla chiusura del caso: una presentata dall’avvocato Carlo Palermo, per conto dei parenti di Ilaria Alpi, l’altra dall’avvocato Giulio Vasaturo, a nome della Federazione nazionale della stampa, dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e di quello dei colleghi della Rai (l’UsigRai).

I due avvocati elencano una lunga serie di approfondimenti e nuove indagini che possono/devono essere fatte per arrivare finalmente a una verità senza ombre.

Ma, certo, sorge una domanda: può essere ancora la Procura di Roma a svolgere eventuali altre indagini? Può tornare in mano agli stessi magistrati che per 25 hanno “fatto fiasco”? Non è forse necessario che le investigazioni passino di mano, a un livello più alto, come potrebbe essere la Procura Generale?

La costante del “caso Alpi-Hrovatin” è la sistematica deviazione dalla verità: ogni volta che vi sono stati passi avanti, qualcuno – con menti raffinate e mani abili – ha fatto giochi di prestigio, ha alterato, sottratto, ha spento riflettori. Per questo, nel tempo, le operazioni di depistaggio sono diventate – come hanno scritto i giudici di Perugia – sempre più “ampie” e raffinate.

Per questo, forse, le istituzioni del nostro Paese dovrebbero esprimere, finalmente, uno straordinario impegno per dimostrare di volere davvero quella verità.

Ps. Come sempre, in occasione dell’anniversario dell’omicidio di Ilaria e Miran, fanno capolino anche coloro – giornalisti e non – che del caso non si sono mai occupati, ma che non di meno hanno capito che i due giornalisti sono morti di raffreddore e che di inchieste non ne avevano mai fatte. Quest’anno, oltre ai soliti noti, sta circolando in queste ore in rete, una new entry sostenitrice dell’“è morta per caso”: nientepopodimeno che l’ex ambasciatore Giuseppe Cassini. Proprio lui. Proprio colui che individuò il testimone falso Jelle, proprio colui che andò a parlarne alla Procura di Roma, proprio colui che fece salire all’ultimo momento sullo stesso aereo su cui viaggiava Hashi Omar Hassan (che veniva in Italia a testimoniare su violenze subite dai militari italiani all’epoca della missione di pace in Somalia) l’autista di Ilaria Alpi, il quale naturalmente, pochi giorni dopo, avrebbe messo a verbale che aveva riconosciuto Hashi. Guarda caso, durante quel volo. Proprio colui, infine, che ha sempre sostenuto che traffici d’armi e rifiuti in Somalia non ne sono mai avvenuti. Cassini dovrebbe spiegare ben altre cose, piuttosto che le ragioni dell’uccisione di Ilaria e Miran. Dovrebbe… se mai un magistrato gliene chiedesse conto.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it