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corruzione anticorruzione cantonedi Giuseppe Salvaggiulo
L’anticorruzione non è un pranzo di gala, nel Paese in cui il pendolo dell’indignazione sconta vertiginose oscillazioni - il giustizialismo moralista da una parte, il perdonismo amorale dall’altra - e le regole sono tante, troppe, ma ci si attrezza sempre per farne a meno. Il nuovo libro di Raffaele Cantone, scritto con il docente di diritto amministrativo Enrico Carloni e intitolato Corruzione e anticorruzione. Dieci lezioni (Feltrinelli, pp. 200, € 17) va letto tra - se non oltre - le righe di un saggio argomentato, piano e ordinato, talvolta sfacciatamente didascalico, al punto da sconfinare nella manualistica. Illustra, facendo un bilancio di quattro anni e mezzo di lavoro, la difficoltà di presidiare un crocevia da 100 miliardi di euro l’anno in cui convergono interessi politici, burocratici, imprenditoriali, professionali e giudiziari (per dire solo di quelli leciti).
Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione racconta non senza imbarazzo che tante persone ancora lo fermano per strada invocandone salvifici interventi, poteri speciali e arresti di massa. Si trattasse di quello, Cantone non sarebbe la persona adatta, refrattario com’è al populismo giudiziario. Ma soprattutto non si è ancora capito che questo ruolo istituzionale non contempla pose da sceriffo, tintinnare di manette, intercettazioni telefoniche a tappeto.
Il sistema disegnato dalla legge Severino in poi prova a emancipare la lotta alla corruzione dalla logica esclusivamente repressivo-penalistica (pur necessaria ma ontologicamente insufficiente) e amministrativa-emergenziale. Si sta cercando (ammesso che non se ne debba parlare al passato) di strutturare una rete di legalità nel settore dei contratti pubblici che funzioni come la protezione civile: un perno centrale (l’Anac) che coordina una rete capillare di responsabili-sensori in ogni ente, fino al più sperduto Comune. La logica è la promozione di pratiche, comportamenti e controlli a tutti i livelli, che prevengano e quindi riducano tangenti, sistemi gelatinosi, conflitti di interessi.
E dunque più linee guida, analisi preventive dei bandi di gara, procedure aperte e competitive, valutazione del merito dei progetti e della qualità delle offerte. E meno deroghe, trattative private, ribassi al limite del dumping inevitabilmente associati a generose e sospette revisioni prezzi.
Cantone rivendica questo approccio sia dal punto culturale sia da quello operativo. Sottolinea gli apprezzamenti internazionali, contesta i critici prevenuti o corrivi. Ma non nasconde che qualcosa non ha funzionato nel Codice dei contratti pubblici (degli appalti, secondo la vulgata imprecisa ormai consolidata). Paga un eccesso di complessità (220 articoli e 25 allegati); è entrato in vigore in modo traumatico (lo stesso giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e senza periodo transitorio, per rispettare un obbligo comunitario); da subito è stato modificato incessantemente (200 correzioni in due anni).
Un «gigante in movimento», così lo definisce Cantone, che ha turbato, bloccato e spiazzato pubbliche amministrazioni, tecnici e imprese. Ne è la prova il crollo di gare registrato nel 2016, con l’entrata in vigore delle nuove regole, ancora non del tutto colmato dalla successiva ripresa.
Ce ne sarebbe per correzioni chirurgiche, invece soffia un poderoso vento revisionista tendente a cancellare il modello in sé. «Se qualcuno pensava che il compito dell’Autorità fosse quello di eradicare la corruzione - scrive Cantone - ha ragione a essere deluso ma dovrebbe, in primo luogo, prendersela con chi non le ha fornito una bacchetta magica, necessaria per far scomparire il male».
Più in generale, le riflessioni degli autori evocano l’idea di un Paese irrimediabilmente incline alla controriforma come antidoto alla riforma. Prigioniero dell’impossibilità di realizzare le opere pubbliche in tempi ragionevoli e con costi certi e di mercato. Rassegnato a non far funzionare la pubblica amministrazione secondo standard trasparenti e e misurabili, con «concorsi ben fatti» e dirigenti efficienti. E in fondo - un fondo limaccioso - allergico alle regole, perché preferisce sistemi opachi in cui gli interessi organizzati si compongono secondo logiche consensuali. Possibilmente a spese dei contribuenti (meglio ancora se futuri) e in danno dell’interesse collettivo.

Tratto da: La Stampa del 22 novembre 2018

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