di Lorenzo Lamperti - Intervista
Antonio Ingroia parla in un'intervista a tutto campo ad Affaritaliani.it dei contenuti del suo libro "Le trattative". E non solo...
Antonio Ingroia, partiamo dal titolo del suo libro: "Le trattative". Come mai questo titolo? Significa che di trattative ce ne sono state più di una?
Certamente. Ho scelto intenzionalmente questo titolo proprio per spiegare che di trattative ce ne sono state tante e che quella famigerata trattativa Stato-mafia oggetto del processo che è arrivato recentemente alla sentenza di primo grado a Palermo è certamente la più famosa e terribile, ma non la sola.
Che cosa risponde a chi sostiene che la trattativa fu portata avanti per evitare delle vittime?
Rispondo che non è così. La trattativa ha fatto tutto il contrario, accelerando le stragi e causando altre vittime. E io ho voluto racconta che questo purtroppo non è stato un episodio accidentale. Lo Stato italiano è stato raramente intransigente con i poteri criminali e la mafia in particolare, il cui potere è cresciuto proprio grazie alle trattative e alla legittimazione da esse derivanti. Nella storia ci sono state diverse trattative, come quella in occasione dello sbarco degli alleati in Sicilia nella Seconda Guerra Mondiale, per poi arrivare a quella oggetto del processo di Palermo che vide protagonisti carabinieri, Vito Ciancimino, Riina e il papello. Ma poi ci fu un'altra trattativa con Provenzano, quella portata avanti da un uomo border line tra servizi segreti ed eversione nera come Paolo Bellini e quella con Dell'Utri nel 1994.
Lei nel libro fa riferimento anche a una trattativa nella quale Dell'Utri e Berlusconi avrebbero dovuto essere i tramiti per arrivare a Craxi. Può dirci qualcosa in più?
Dell'Utri è sempre stato uno dei principali artefici delle trattative, lo si potrebbe definire "il principe delle trattative". Inizia negli anni '70 quando mette piede nell'impero Fininvest con l'approdo di Mangano alla villa di Arcore. Porta la mafia in casa di Berlusconi, che in quel momento era sotto minaccia. Viveva nel pericolo di un sequestro suo o dei suoi famigliari e invece di rivolgersi alle autorità si rivolse a Dell'Utri. Ma Dell'Utri non è stato solo il tramite tra mafia e imprenditoria ma anche tra mafia e politica. A un certo punto Cosa Nostra sentì usurarsi il rapporto con la Democrazia Cristiana e in particolare con la corrente andreottiana e per questo decise di provare a raggiungere Craxi, visto che il Partito Socialista aveva raggiunto un ruolo centrale nello scenario politico italiano. Sapendo dei suoi ottimi rapporti con Craxi, si pensò di utilizzare Berlusconi per arrivare a lui. Un progetto poi abortito perché anche il Psi non fu più ritenuto un interlocutore affidabile dopo che l'allora ministro Martelli chiamò Falcone al ministero. Dopo di che ci furono gli anni del conflitto con la Dc e l'omicidio di Salvo Lima che portò poi alla trattativa.
In tutta questa vicenda Berlusconi è stato più vittima o più carnefice?
Io ho sempre detto che sul piano penale non c'è nulla di ascrivibile a Silvio Berlusconi. Qualcuno mi accusa di aver cambiato versione ma non è così, anche nel processo Dell'Utri dissi che dal punto di vista penale non avevamo elementi per accusare Berlusconi. E difatti io stesso archiviai la sua posizione e lui non è mai stato portato a processo dalla procura di Palermo. Io lo considero un terminale di pressioni alle quali si è piegato prima da imprenditore e poi da politico. Lo si può definire una vittima sui generis.
Lei sostiene che, dopo la Dc, Cosa Nostra individuò in Forza Italia il successivo interlocutore politico. Seguendo il suo ragionamento, ora che Forza Italia ha perso gran parte del suo potere politico la mafia sta cercando nuovi interlocutori politici?
Questo è evidente. Nel piano politico nazionale il potere di Forza Italia si è andato sgretolando negli ultimi anni. Va però detto che nel tempo Cosa Nostra ha probabilmente modificato il proprio approccio alla politica. Nella Prima Repubblica c'era una "democrazia bloccata" e un quadro politico stagnante dove l'attore principale, la Dc, restava sempre al governo e al massimo cambiavano i suoi partner. Durante la Seconda Repubblica, anche se al governo ci sono state forze diverse, l'egemonia politica o comunque mediatica e culturale è sempre stata in mano a Forza Italia. Oggi siamo invece in una fase di grande dinamismo e mutevolezza, con forze politiche come il Pd che in poco tempo passano dal 40 al 20 per cento e altre che fanno il percorso opposto. Oggi ritengo dunque che non ci sia un interlocutore affidabile di lunga scadenza per la mafia. Se si considera poi che la mafia stessa è mutata, passando da un'organizzazione gerarchica e monolitica a una più eterogenea e frammentata, la conseguenza ovvia è che più che sui gruppi politici Cosa Nostra lavori a sui rapporti interpersonali e sui singoli nomi.
Nel suo libro parla di numerosi "sabotaggi" o comunque di "attacchi" alle indagini della procura di Palermo. Qual è stato l'attacco che meno si sarebbe aspettato?
A livello personale devo dire che non mi sarei aspettato di venire attaccato da quella che possiamo definire "sinistra al potere". La prima grande sorpresa è arrivata con il primo governo Prodi, che si era insediato con grandi aspettative in una fase in cui la lotta alla mafia era in grande spolvero. Ci si aspettava sostegno e supporto all'azione giudiziaria perché sembrava davvero che potessimo dare il colpo definitivo a Cosa Nostra.
E invece?
Invece c'è stato un evidente disimpegno del governo Prodi, in particolare in seguito alla nomina dei ministri Flick e Napolitano. Il governo fece scelte non dico di ostacolo ma comunque di non supporto alla nostra azione. Si passò dalle promesse alla freddezza e poi all'aperta ostilità. Il clou si è però verificato negli scorsi anni, quando gli attacchi e le delegittimazioni sono arrivate anche dall'interno della magistratura e dall'informazione cosiddetta "progressista".
A chi fa riferimento?
Faccio riferimento per esempio agli editoriali di Eugenio Scalfari su Repubblica, schierati in maniera netta con Napolitano sulla questione del conflitto di attribuzione e decisamente ostili all'indagine sulla trattativa che oggi è stata consacrata da una sentenza.
Lei fa riferimento alla famosa telefonata tra Napolitano e Mancino che poi la Consulta ha ordinato di distruggere su richiesta del Quirinale stesso. A proposito, lei nel libro parla del fatto che l'allora direttore di Repubblica Ezio Mauro si fece da intermediario tra la procura e il Colle a riguardo. Come andarono le cose?
Ho voluto raccontare questo episodio per dimostrare che, contrariamente all'immagine che si preferisce diffondere della procura di Palermo, da parte nostra non c'era nessuna pretestuosa contrapposizione nei confronti del Quirinale. Appena è arrivato un segnale per evitare il conflitto di attribuzione io mi mostrai disponibile a raccoglierlo, anche perché ho sempre stimato Ezio Mauro. Poi però si è tutto interrotto e non c'è stato più nessun passo dal Quirinale o dagli ambasciatori o ambasciatrici scelti dal Colle. Qualcuno ha fatto un gioco strano.
A che cosa allude?
Ritengo che qualcuno, non so dire chi, abbia preferito ostacolare il dialogo tra procura di Palermo e Quirinale alimentando la contrapposizione, sapendo che un'azione diretta del Colle avrebbe avuto come effetto quello di bloccare l'indagine, cosa poi effettivamente avvenuta.
Ma che cosa rappresentava quella celeberrima telefonata ai fini dell'indagine?
Guardi, le faccio un paragone. Nel processo Andreotti si finì per parlare solo del presunto bacio tra Andreotti e Riina. Passò il messaggio che Andreotti era innocente se il bacio non c'era stato. Ma l'indagine era basata su ben altri elementi. La stessa cosa con la telefonata Napolitano-Mancino. Insomma, la regola in entrambi i casi era quella di parlare d'altro per non parlare del terribile merito dei processi.
Si può dire che lei ha lasciato la magistratura a causa dello scontro istituzionale con Napolitano?
Certo che si può dire, è così. Io cominciai quell'indagine nella notte del 19 luglio 1992, poche ore dopo l'omicidio di Paolo Borsellino. La mia storia professionale è tutta legata alla figura di Borsellino. In quei 20 anni ho cercato in tutti i modi di dare un contributo alla scoperta della verità, anche se la sede competente per le indagini su via D'Amelio era Caltanissetta. Con il processo trattativa mi sentivo di essere arrivato vicino, ritengo che eravamo con la verità a portata di mano. Avremmo potuto proseguire con nuove prove e acquisizioni e invece quel conflitto di attribuzioni è stata la saracinesca che ci ha sbarrato la strada. A quel punto non ci è rimasto altro da fare che mettere a frutto anni di indagini e formulare le richieste di rinvio a giudizio. In quel momento ho sentito esaurito il mio compito, perché sapevo che non avrei potuto più andare avanti nella ricerca della verità.
Il passaggio in politica non è stato molto fortunato.
Nel 2013 ero convinto di poter portare in parlamento la mia battaglia per la verità. Non è andata bene ma io continuo a lottare per la verità. Lo sto facendo anche in questi giorni, con la proposta di una commissione parlamentare d'inchiesta. E credo di poterlo fare anche con maggiore libertà rispetto ai vincoli della toga. Per questo continuo a lottare nelle vesti di avvocato, cittadino e, in questo caso, scrivendo libri.
Secondo quanto ha detto la conclusione sembra che la verità completa sia impossibile da raggiungere, nonostante la sentenza di Palermo. E' così?
L'indagine di Palermo la definisco una bellissima opera incompiuta. E' un processo che ha consentito una sentenza senza precedenti: per la prima volta i vertici della mafia sono stati condannati insieme agli apparati istituzionali con membri delle forze di polizia speciali e il fondatore di un partito che è stato a lungo quello di maggioranza relativa. Ma non tutti i responsabili sono stati puniti e non tutti i punti oscuri sono venuti alla luce.
Dica la verità: ci credeva davvero nella sentenza di condanna dello scorso aprile?
Credevo nella validità del lavoro dei magistrati e nella professionalità e dirittura morale dei giudici della corte d'assise. Allo stesso tempo però avevo in mente sentenze sconcertanti che negli ultimi anni avevano mostra l'attitudine della magistratura di essere spesso doppiopesista nel giudicare uomini dello Stato e imputati ordinari. Come diceva Sciascia, "lo Stato non può mai processare se stesso". Dunque per questo un po' sono stato positivamente sorpreso dalla sentenza di Palermo.
Quando parla di "sentenze sconcertanti" fa riferimento anche a quella della Consulta sulla telefonata tra Mancino e Napolitano?
Quella sentenza è un emblema.
Che cosa ne pensa del governo M5s-Lega? Può ottenere buoni risultati in materia di lotta alla criminalità organizzata e ricerca della verità?
Sono in una fase di sospensione di giudizio. Certo potrei cavarmela dicendo che sarà difficile possano fare peggio dei governi precedenti. Non so se questo sarà un governo del cambiamento nei fatti, per ora lo è nelle parole e nelle facce. Lo stesso Salvini, a modo suo, ha detto cose dure sulla mafia. Per essere davvero il governo del cambiamento non possono passare inosservate le sentenze di Palermo sulla trattativa e quella sul Borsellino quater che parla di depistaggi nell'indagine su via D'Amelio. Per questo ho proposto una commissione parlamentare d'inchiesta. Vedremo, io piuttosto che criticare preventivamente preferisco stimolare e pungolare per ottenere un vero cambiamento.
Tratto da: affaritaliani.it