di Stefania Limiti
Per molti anni è stata la verità ufficiale, ma oggi sappiamo che su diversi punti il documento firmato dall'ex responsabile logistico del gruppo armato confondono le acque: sul covo-prigione, sui componenti del commando, sulle auto impiegate. Negli anni successivi, i rapporti con il Sisde. Sullo sfondo, una trattativa parallela e oscura
Valerio Morucci si presentò al suo primo incontro con i capi brigatisti, in viale Zara a Milano, a bordo di una Mini Cooper gialla con tetto nero e una ragazza bionda. Era molto elegante: giacca blu con bottoni d’oro, camicia di seta, cravatta, occhiali Ray-Ban. Chiese di entrare nelle Br, ma l’incontro non andò bene perché “sembrava un fascistello sanbabilino”, ha poi scritto Alberto Franceschini che, insieme a Mario Moretti, era arrivato su una Fiat 850 grigio sbiadito e un enorme portabagagli sul tetto. Le cose andarono come è noto: Morucci divenne responsabile logistico delle Brigate rosse e uno degli uomini-chiave dell’operazione Moro che lo ha rivelato alle cronache come il brigatista della mediazione, il “buono” che vuole salvare l’ostaggio, contro il duro e spietato Moretti. La faccenda è un po’ più complessa dello schema che si è impresso nell’immaginario collettivo. Del resto, tutto il caso Moro è diventato un luogo simbolico dove gli eventi sono più rappresentati che raccontati nella loro essenzialità – anche il figlio di Moro, Giovanni, in genere schivo, dice a Ezio Mauro che “la questione non è affatto chiusa, non amo le spy story, ma è ammissione comune che ci siano zone d’ombra, questioni non chiarite, contraddizioni e spiegazioni non ragionevoli”. Perciò la ricerca storico-giudiziaria non è affatto chiusa e due inchieste sono in corso alla Procura di Roma e alla Procura generale. Dopo 40 anni, in effetti, siamo qui a ripercorrere gli eventi, ma ciò che è stampato nelle nostre menti è in gran parte una sceneggiatura, non la verità. Il regista dell’opera di aggiustamento del racconto è stato, nel fronte brigatista, proprio lui, Valerio Morucci che ha sbattuto sul tavolo della grande mediazione il suo Memoriale: 285 pagine – di cui solo 110 dedicate ai particolari del caso Moro – nelle quali l’informazione che convince di più, forse, è il costo complessivo a carico delle Br di tutta l’operazione: 700mila lire, un dato che appare sottolineare il minimalismo e l’approccio militante della sua preparazione.
Il Memoriale sembra risolvere il quesito principe, quello della prigione di Moro: in realtà, il brigatista ammette di essere all’oscuro della questione perché non ha mai saputo nulla in modo diretto, per via della rigida compartimentazione, anche se impone la cancellazione di alternative: “Escludo in modo assoluto che Moro sia stato tenuto prigioniero in via Gradoli o nella base di Velletri… o fosse stato portato in luogo coperto da immunità diplomatica o in qualche sede di partito o in qualsiasi altro luogo che fosse estraneo all’organizzazione”. O sa o non sa, in ogni caso la sua versione sulla prigione di via Montalcini diventa verità processuale e poi, diremmo, luogo comune. Sul numero dei partecipanti alla strage di via Fani Morucci nel 1984, data d’inizio della lunga stesura del testo, sostiene che il commando era composto da nove persone, ma nel 1997 ne aggiungerà una decima, Rita Algranati, che prima «aveva dimenticato». Sostiene poi che il commando sparò solo da sinistra, mentre sappiamo, perché ce lo conferma la perizia richiesta dal presidente del processo Moro-quater, che diversi colpi partirono anche dal lato destro della strada. Il particolare è cruciale ma la questione si chiude lì.
Morucci descrive poi il percorso fatto dalle auto del commando da via Fani in poi: non dice che fine fanno la Dyane guidata da lui con a bordo Bruno Seghetti e l’autofurgone 850 sul quale viene fatto salire Moro in Piazza Madonna del Cenacolo, dove avviene il primo trasbordo dell’ostaggio. Tutte le altre auto della fuga, dice, vengono riportate e abbandonate in una stessa strada, via Licinio Calvo: che bisogno c’era di riportarle tutte lì? Come se l’assassino tornasse sul luogo del delitto. In realtà, oggi, grazie al lavoro della Commissione Moro 2, è anche noto che le auto della fuga vennero ritrovate a distanza di giorni l’una dalle altre ed è stato anche accertato che la 132 sulla quale venne fatto salire Moro in via Fani fu ritrovata tra le 9,15 3 le 9,23: non è possibile che quell’auto abbia portato l’ostaggio fino a Piazza Madonna del Cenacolo. Sostiene sempre Morucci che il furgone con l’ostaggio va poi verso il parcheggio della Standa di Viale Portuense. Qui il racconto non si incrocia mai con quello degli altri: Moretti dice che alla Standa c’erano Laura Braghetti e Prospero Gallinari; Morucci dice che quest’ultimo si era subito allontanato da via Fani per recarsi verso la prigione; il guazzabuglio assume i contorni di un imbroglio se si considera che Braghetti comincia il suo libro proprio dicendo di essere rimasta a casa ad aspettare il ritorno dei suoi compagni e dell’ostaggio.
Insomma, il Memoriale, che ha avuto il ‘visto’ del libro intervista di Mario Moretti, è approssimativo e arrangiato, natura descritta in una indimenticabile risposta che Morucci diede alla domanda dell’onorevole Luciano Violante nel 1983, durante una audizione della prima Commissione Moro: “Nella strage di via Fani sono stati impegnati più di dodici brigatisti?”. “Secondo me sì, ma non eccessivamente di più”. Oggi sono stabiliti (Terza Relazione Commissione Moro 2) “l’incongruenza delle ricostruzioni di Morucci su punti non secondari” e il dato che diversi soggetti parteciparono alla costruzione della verità giudiziaria offerta da quel testo: al tavolo c’erano il Sisde, il servizio segreto civile, uomini politici e delle istituzioni, in particolare Remigio Cavedon, personaggio autorevole della Dc, vicedirettore de Il Popolo, e i buoni servigi di una suora tuttofare, Teresilla, un po’ spia e un po’ religiosa, molto legata a Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro. Morucci più che testimone ha una più ampia e opaca funzione di consulente di una trattativa che venne sempre nascosta all’opinione pubblica.
Il brigatista “buono”, che aveva nel portafogli l’indirizzo e il telefono dell’Università Pro Deo diretta dal religioso nonché agente della Cia padre Felix Morlion, dialoga con i Servizi segreti, fornisce loro note critiche su diverse questioni e si pone come punto di riferimento della politica carceraria. Tra il 1986 e il 1987 il rapporto Morucci/Sisde è “continuativo” e il suo parziale disconoscimento della paternità del Memoriale – ha detto di ricordare di averne scritto una parte – appare in effetti verosimile perché le caratteristiche formali e compositive del testo fanno scrivere alla Commissione Moro 2 che si tratta di “un elaborato interno agli apparati di sicurezza”. Il Memoriale ha stabilito la purezza rivoluzionaria dell’azione di via Fani e la responsabilità unica del gruppo brigatista. Perché la Democrazia cristiana si è seduta al tavolo della trattativa? Perché doveva autoassolversi dall’accusa più grave: non aver salvato l’uomo che rappresentava la sua storia e, in quel momento, il suo futuro. La stabilizzazione di una verità parziale è stata funzionale alla chiusura di una stagione. Operazione riuscita fino a oggi ma a caro prezzo: quello di sacrificare la piena comprensione del caso Moro e la consapevolezza delle forze che hanno interferito durante i 55 giorni, determinandone il loro esito tragico.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it