Intervista
di Antonella Mascali
Il divieto, secondo lo schema del decreto Orlando, di riportare le intercettazioni nei provvedimenti dei pm, dei gip e dei giudici del Riesame ha come obiettivo il bavaglio ai giornalisti: non potranno raccontare fatti di rilevanza sociale anche per diverso tempo. Musica per le orecchie della classe politica.
Alla luce di questa bozza di legge, facciamo un primo ragionamento con Sebastiano Ardita, il procuratore aggiunto di Messina, che si occupa di mafia e corruzione.
Dottore, questa proposta serve a voi magistrati che indagate?
Con la cautela che occorre nel parlare di un testo non ancora definitivo, mi sembra di poter dire che la prima parte di questa disposizione non serve a chi indaga e certamente danneggia ancor di più chi è sottoposto a un processo. L’imputato si vedrà condotto in carcere senza conoscere esattamente quale frase gli viene attribuita, ma solo sulla base di una specie di riassunto. Nella logica della migliore valutazione dei fatti, sostituire l’elemento probatorio con una sua pur fedele rappresentazione è una operazione bizantina. È come se uno avesse la fotografia dell’istante in cui l’assassino colpisce la vittima, ma fosse costretto a raccontarla, senza poterla allegare. Ed è pure una soluzione ingenua perché inidonea a conseguire il suo scopo: se si teme che qualcuno divulghi il virgolettato, che adesso si può leggere in un provvedimento restrittivo, cosa impedisce che venga divulgato il verbale quando tutte le parti lo avranno, cioè dopo il deposito al tribunale della libertà? Infine, sul concetto di ‘conversazioni irrilevanti che il pm dovesse ritenere utili’, la cui trascrizione deve essere motivata con un decreto apposito, alzo proprio le mani. Perché non si capisce davvero il senso di questo ossimoro: le conversazioni o sono utili e dunque rilevanti o non lo sono. Se le cose stanno così sembra una norma scritta su un altro pianeta.
Qual è secondo lei l’obiettivo?
Da anni gran parte della classe politica invoca una riforma delle intercettazioni finalizzata a limitare la divulgazione mediatica. Le disposizioni che mi ha appena letto sembrano rivolte esattamente solo a questo, anche a costo di travolgere i diritti delle parti nel processo. Del resto, come abbiamo detto e scritto più volte, il sistema della repressione dei reati dei colletti bianchi in Italia è pressoché all’acqua di rose: fa molta meno paura di quella che viene definita “gogna mediatica”. Ma nessuno di coloro che urla contro la gogna mediatica è in grado di comprendere che essa è proprio la conseguenza della inefficienza della repressione penale.
Ogni volta che si vuole fare un giro di vite alle intercettazioni si grida alla violazione della privacy da parte dei giornalisti o al protagonismo di tanti pm che attraverso le intercettazioni inserite nelle ordinanze di custodia cautelare o di perquisizione vogliono farsi pubblicità. Lei cosa ne pensa?
Questo problema riguarda solo la cosiddetta classe dirigente del Paese e non i normali cittadini. Penso che chi abbia la responsabilità di rappresentare gli altri o di gestire interessi da cui dipende il bene della collettività dovrebbe preoccuparsi di mantenere una condotta civile degna del ruolo che occupa piuttosto che chiedere tutele della propria privacy.
Durante la cosiddetta udienza stralcio che sarà alla chiusura delle indagini le parti, davanti al giudice, stabiliranno quali intercettazioni trascrivere e depositare al processo. Ma se ci fossero registrazioni rilevanti per l’opinione pubblica? Non le potremo mai pubblicare perché custodite in un archivio segreto...
Anche attualmente possono esserci comunicazioni che la stampa e di conseguenza l’opinione pubblica non conoscerà mai perché ritenute da tutte le parti irrilevanti.
Quindi, per tornare al punto precedente, la questione della privacy che si agita per giustificare questo giro di vite è una falsa questione?
Sì, perché pure adesso la privacy può essere tutelata.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 9 settembre 2017
Foto © Giorgio Barbagallo