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napolitano giorgio big 281113di Marco Travaglio
Se Napolitano non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. È una bussola all’incontrario, un barometro alla rovescia. Per capire se una cosa è giusta o è sbagliata, basta aspettare che lui moniti. Se è contento, è sbagliata. Se è incazzato, è giusta. Se chiede di fare A, bisogna affrettarsi a fare B. Se auspica X, bisogna augurarsi Y. Se va a Nord, conviene buttarsi a Sud. Basta fare il contrario di quel che vuole lui per avere la certezza pressoché matematica di non sbagliare. Vi pare poco, in tempi così confusi? Fateci caso: qualunque politico abbia seguito i suoi amorevoli consigli, ne ha poi subìto le mortifere conseguenze; viceversa chi non gli ha mai dato retta oggi gode di ottima salute. È così dal 1956, quando esaltò l’Armata Rossa che reprimeva nel sangue la rivolta di Budapest, poi appena 50 anni dopo dovette chiedere scusa. Dagli anni 80 al 1992 voleva l’alleanza del Pci col Psi di Craxi, poi sappiamo com’è andata. Nei nove anni al Quirinale ne combinò di tutti i colori. Eletto e rieletto da due Parlamenti figli del Porcellum dunque illegittimi, nel 2014 avallò la partenza dell’Italicum in Parlamento e poi, il 4 maggio 2015, appena sceso dal Colle, cazziò chi osava votare contro alla Camera. Peccato che anche quello fosse incostituzionale. E per giunta valeva solo per la Camera perché - negli auspici di Napo&Renzi - il Senato non l’avremmo più eletto noi, ma l’avrebbero nominato i Consigli regionali.

Non avevano pensato che al referendum poteva pure vincere il No, e infatti vinse: gl’italiani rasero al suolo anche la riforma costituzionale di Re Giorgio, con dentro il povero Matteo che gli aveva dato retta. Così Camera e Senato si ritrovarono con due leggi elettorali diverse. E il 5 dicembre, quando Renzi si dimise, Mattarella scoprì con grande sorpresa che non si poteva votare con due sistemi disomogenei. Nacque così il governo-fotocopia Gentiloni per dare il tempo al Parlamento di approvare un nuovo sistema di voto proprio nel periodo meno indicato: il finale di legislatura. E lì è avvenuto il miracolo: per la prima volta i maggiori partiti han trovato un’intesa su un modello proporzionale che non avvantaggia né svantaggia nessuno. Cioè, una volta tanto, hanno partorito una legge elettorale condivisa dall’80% del Parlamento (sul testo nutrivamo e ancora nutriamo molte riserve, sperando che siano superate in aula, ma qui parliamo del metodo, non del merito). Che, diversamente dalle ultime, pare addirittura costituzionale. Un presidente emerito normale s’inchinerebbe alla stragrande maggioranza parlamentare.

E si congratulerebbe con i leader che sono riusciti là dove, sotto la sua guida, avevano fallito. Un emerito normale, appunto: non Napolitano. Il quale infatti, schiumando di rabbia e battendo i pugni come i misirizzi del Far West, davanti agli adoranti corazzieri Cassese, Manzella, Bassanini, Dini e Bonino, insomma la meglio gioventù, si scaglia contro il Parlamento che dopo due lustri osa approvare una legge che non piace a lui (infatti è legittima). Accusa i quattro leader dell’accordo di “calcolare esattamente le proprie convenienze”, mentre ai suoi tempi - quando B. e Renzi imponevano agli altri le loro leggi illegali a colpi di maggioranza e di fiducie - si seguivano solo gli interessi del Paese. E attacca la decisione dei 4/5 del Parlamento di staccare la spina al quarto governo consecutivo mai voluto dagli elettori: un “patto extracostituzionale… semplicemente abnorme” solo perché non piace a lui. E perché “in tutti i Paesi democratici europei si vota alla scadenza naturale”. Con tanti saluti al capo dello Stato, che casomai non lo sapesse non è più lui e che, sulle elezioni anticipate, ha tutt’altra posizione. In effetti però non se ne può più di questi scioglimenti anticipati delle Camere, come quelli decisi nel gennaio 2008 (anziché nel 2011) e nel dicembre 2012 (anziché nella primavera 2013). Da chi? Da Napolitano, naturalmente.

Ma forse non è l’aggettivo “anticipate” a fargli saltare la mosca al naso: è il sostantivo “elezioni”. Cioè quella brutta cosa dove gli elettori scelgono da chi vogliono essere governati senza chiedere il permesso a lui. Infine, come se il suo voto in Senato non valesse 1 su 319, l’emerito minaccia di “esprimermi come mio diritto” da par suo contro la legge che lui chiama “trovata”, sempreché - precisa stizzito - “il passaggio in Senato non sia quasi un volo d’uccello” (come prevedeva la sua controriforma costituzionale). A questo punto qualcuno che gli vuol bene dovrebbe prendere da parte l’anziano ex regnante e avviarlo alle virtù auree del silenzio e della rassegnazione: non ne hai mai azzeccata una in vita tua, il tuo mondo non c’è più, i tuoi moniti servono giusto a fare il brodo, il Parlamento dopo la lunga quarantena monarchica ha riscoperto la Repubblica e s’è rimesso all’opera senza prendere ordini da un pensionato come te. Invece no. Su Repubblica Ezio Mauro prende per oro colato il suo sbocco di bile, perché spera che negli ultimi 6 mesi di legislatura il Parlamento ci regali tutte le mirabolanti “riforme” che non ha varato in 4 anni e mezzo (come gli studenti somari che fanno tre anni in uno, non essendo neppure riusciti a farne uno). E domanda a Renzi - meglio tardi che mai - “quando mai il Pd ha discusso questo esito programmato e pilotato della sua storia”: il governo Renzusconi prossimo venturo. Come se fosse la prima volta che il Pd governa con FI. A noi pare di rammentare che nel 2013 Napolitano si fece rieleggere, dopo aver giurato per un anno il contrario, apposta per battezzare il governo Letta, sostenuto da Pd e FI e benedetto urbi et orbi da Repubblica. Come passa il tempo.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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