Intervista
di Giovanna Pavesi
Politica libera e severa, vide con i propri occhi gli orrori del fascismo. 40 anni fa diventava il primo ministro donna in Italia. Battaglie e ideali di una servitrice dello Stato attraverso la sua biografa.
Coraggiosa. Costante. Severa, soprattutto con sé stessa. Sognatrice razionale e concreta. Lo sguardo pieno di storia e le mani sporche di impegno. L’importanza di esserci, sempre.
La prima donna nominata ministro in un mondo fatto di uomini. Tina Anselmi il 29 luglio del 1976 segnò questo primato diventando ministro del Lavoro, un compartimento maschile per definizione.
Frequentava ancora il liceo quando, in un giorno di settembre, i nazifascisti la costrinsero ad assistere all’impiccagione di 31 prigionieri, suoi coetanei. Era il 1944 e aveva 17 anni: cambiò il suo nome e divenne Gabriella, staffetta partigiana. In sella a una bicicletta, le sue gambe percorsero centinaia di chilometri. Con fermezza e libertà.
L’ETICA PRIMA DI OGNI ALTRA COSA
Nata a Castelfranco Veneto, in marzo, il mese delle donne, era la prima di quattro sorelle. Mite e appassionata, silenziosa ma coinvolta, metteva
l’etica prima d’ogni altra cosa, anche prima di sé stessa. Nilde Iotti, nel 1981, la nominò presidente della Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2, uno dei capitoli più oscuri della Repubblica italiana. Tra i grovigli del malaffare scoprì gli intrecci corrotti di servizi segreti deviati, criminalità organizzata e politica. Contribuì a portare alla luce i piani eversivi che avrebbero potuto sconvolgere la storia d’Italia.
LA SUA STORIA NELLA PENNA DELLA BIOGRAFA
Anna Vinci, scrittrice e saggista, oggi è la voce di Tina Anselmi. È la sua biografa, di lei conosce ogni piega dell’anima: «Diventare biografi di una persona è come avere una storia d’amore. Raccontare la sua è stata una scelta, perché quando tu incontri Tina Anselmi che ti apre il suo mondo che fai? Attraverso la mia penna ho sempre tentato di far parlare lei».
A quattro mani scrissero Storia di una passione politica (Sperling & Kupfer) e nel 2011, Vinci ha pubblicato per Chiarelettere La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi.
DOMANDA: Dalla Resistenza al Ministero. Com’è stato il percorso di Tina Anselmi?
RISPOSTA: Non fu certamente una ragazza come tutte le altre, nel senso che lei, finita l’esperienza partigiana, ha continuato subito l’impegno nel sindacato, l’università a Milano e ha proseguito con un ruolo di impegno civile che poi non avrebbe mai abbandonato.
D: In quegli anni si è anche occupata delle difficoltà di genere?
R: Sì, anche se non era una né che si lamentava né si soffermava a subire o ad analizzare l’emarginazione.
D: La sua era una famiglia prevalentemente di donne.
R: Sì, sua madre era rimasta vedova molto presto. Tina aveva tre sorelle e un fratellino che però morì a 12 anni. Conobbe molto da vicino una dimensione tutta femminile. Poi, come si sa, la guerra ha scardinato un po’ tutti i ruoli.
D: Nel 1976 l’Italia era pronta ad avere una donna ministro?
R: Tina mi ha sempre detto: «Sembra che i tempi delle donne non coincidano mai con i tempi del nostro Paese». E aveva ragione. Salvo poi dimostrare che le grandi conquiste democratiche hanno sempre visto presenti le donne, con un loro spirito fattivo e con la loro diversità.
D: Cosa intendeva dire?
R: Anche quando ci fu il voto femminile, molti erano preoccupati: per un motivo o per l’altro le donne non erano considerate abbastanza pronte.
D: L’opinione pubblica come accolse quell’evento?
R: Naturalmente ci furono molte congratulazioni, ma anche tante gelosie. L’opinione pubblica forse fu colta impreparata ma lei riuscì, presto – e in parte lo aveva già fatto – a inserirsi nell’immaginario collettivo. Era molto amata. Lei era realmente una donna e il Paese probabilmente lo avvertiva.
D: In che senso?
R: Non era una donna in carriera, mascolinizzata. Vuole sapere come scoprì dell’incarico?
D: Certo.
R: Mi ha sempre raccontato che quando ebbe la notizia, stava lavando i piatti e stava rigovernando a Via degli Uffici del Vicario 30, dove aveva delle stanze nella casa di due signorine dell’Azione Cattolica. Lei ha sempre vissuto lì, fino al 1992. L’opinione pubblica, quindi, colse la novità di una persona che viveva una vita di grande normalità. Una donna normalmente eccezionale.
D: Cosa c’era di «eccezionale» in lei?
R: Tina fa parte di quelle rare persone che hanno incontrato loro stesse. Penso che questa sia una delle cose più difficili. Lei scelse, sempre.
D: Sentì il peso di quel compito?
R: Fare il ministro per lei significava lavorare come pazzi. Ci arrivò preparata e lo sapeva: era già stata sottosegretario e si è sempre occupata di lavoro. Fu sindacalista e contribuì, nel 1975, alla stesura del nuovo diritto di famiglia. Affrontò con coraggio anche quell’opportunità. Non dimentichiamoci che venne da un’esperienza partigiana molto giovane e da un Dopoguerra di ricostruzione e povertà. La responsabilità le piaceva, infatti poi divenne ministro della Sanità: anche in quel caso si dimostrò un gigante. Firmò, da laica e cattolica, la legge sull’interruzione di gravidanza.
D: Come si era preparata a questi compiti?
R: È stata una grande intellettuale, molto preparata sulla cultura democratica francese: lesse, in gioventù, tanti libri di nascosto perché in epoca fascista erano vietati. Una donna intellettualmente raffinata ma cresciuta sotto l’egida del fare. Fu anche una sportiva.
D: Una sportiva?
R: Sì, e non soltanto dilettante: aveva partecipato alle gare regionali del lancio del giavellotto e fondò una delle prime squadre di pallacanestro femminile. Una donna poliedrica. Aveva il gusto della competizione seria e del gioco di squadra, che la portò anche in politica.
D: Tina Anselmi disse: «Quando le donne si impegnano nelle battaglie, le vittorie sono vittorie per tutta la società». È grazie a lei se oggi esiste una legge sulle Pari Opportunità. Cosa si è perso, oggi, della sua lotta?
R: L’essere vigili. Lei, già nei nostri dialoghi nel 2007, a ridosso del 2011 (anno in cui ha cominciato la malattia a farsi più pesante, ndr), mi ripeteva: «Nessuna conquista è per sempre».
D: Cosa intendeva dire?
R: Lo vediamo in questi rigurgiti di violenza contro le donne, nei femminicidi, ad esempio. Nel momento in cui si conquistano nuovi obiettivi nel cammino della parità, nello stesso tempo, si smuovono elementi consolidati e spesso si creano situazioni di nervosismo, soprattutto da parte di chi detiene il potere. Ma secondo Tina vigilare era un dovere morale trasversale, che non riguardava soltanto la questione femminile e i diritti. La cultura ha un processo lento, tenere gli occhi aperti è un dovere. Per i cambiamenti serve tempo.
D: Nel 1981 fu un’altra grande donna della Repubblica italiana, Nilde Iotti, a nominarla presidente della Commissione d’inchiesta P2. La signora Anselmi seppe mai perché fu scelta proprio lei?
R: Sicuramente per una stima reciproca. Si conoscevano, avevano combattuto tante battaglie insieme e avevano in comune l’esperienza partigiana. La scelse per la sua autorevolezza e per la sua rettitudine, ma anche perché, all’epoca, il presidente del Senato era Fanfani, che non avrebbe mai bocciato Tina Anselmi. Lei aveva troppo carisma. Era cattolica, democristiana. Serviva una persona che non fosse legata in nessun modo alle dinamiche della Loggia P2.
D: Essere stata presidente di una commissione che, proprio negli anni più incandescenti della Repubblica, indagava su intrecci molto pericolosi – riguardanti la massoneria, i servizi segreti e la criminalità organizzata – la espose a pericoli e minacce. Ebbe mai la tentazione di tirarsi indietro?
R: No, mai. Era consapevole di quello a cui sarebbe andata incontro. In un’intervista, subito dopo la nomina, dichiarò che quel compito sarebbe stato, probabilmente, molto più difficile di quello da ministro. La nomina avvenne nel 1981, ma pensi che l’8 marzo 1980 scoprirono nel giardino della casa della sorella Maria, che viveva in una villetta contigua alla sua, una quantità notevole di tritolo inesploso. La stampa ne parlò pochissimo. La sua integrità sicuramente aveva infastidito. Una volta, una delle sue sorelle mi disse che forse fu da quel momento che iniziò la sua malattia: l’aver scoperto il marcio della classe dirigente le portò grande dolore. Lei diceva che non si capiva se fossero più stupidi o più lestofanti. E questa sua indipendenza non gli è stata mai perdonata.
D: Fu un’esponente di spicco della Democrazia Cristiana: cosa la spinse ad insistere in un’inchiesta così intricata e pericolosa che, di riflesso, coinvolgeva anche il suo partito?
R: Da un punto di vista etico per lei non fu affatto complicato. Fu più deludente il dopo perché, come ripeteva, nessuno aveva voluto vigilare su una pagina così oscura del nostro Paese. Sembrava che, dopo tutto quello che aveva fatto, si fosse voluto mettere un silenziatore e voltare pagina. Questo le provocò enorme dolore. Dopo la morte di Aldo Moro nel partito il comitato d’Affari prese il posto della varietà delle voci; la Dc non fu più la stessa: Tina era preoccupata per questa deriva eversiva all’interno del partito, di questo Stato nello Stato. Fu una lacerazione sia politica che umana.
D: Lei ha scritto un libro, edito da Chiarelettere, che si intitola La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi. Che cos’erano questi diari segreti?
R: Erano dei fogli sui quali prendeva degli appunti significativi. Scherzando mi disse che lo fece perché non si sentiva abbastanza preparata, non essendo laureata in Legge, ma fondamentalmente il motivo era che si rendeva conto di tutto quello che sarebbero stati il depistaggio e il contro-depistaggio. Sapeva che la posta era enorme e voleva essere molto lucida. Lei, ad un certo punto, con grande fiducia mi diede questo malloppo scritto a mano che io decifrai. Così nacque il libro.
D: Ad un certo punto Tina Anselmi scrive: «Fate presto a pubblicare i miei appunti. Anche solo qualche giorno dopo sarà troppo tardi». Cosa intendeva dire?
R: La storia ci ha dimostrato che la nostra è una democrazia malata perché il progetto eversivo della P2 non si è voluto chiarire e continuiamo ad avere una sistema traballante, anche legato a tutte queste storie di trattative Stato-mafia. Aveva le idee molto chiare e credo possa essere annoverata insieme a Falcone, a Borsellino, come tra i migliori servitori dello Stato. Un giorno mi disse: «Non mi hanno ammazzata, forse pensando che sono una donna e che non sarei andata fino in fondo».
D: Politica a parte, del suo privato non conosciamo molto.
R: Tina non ebbe figli, ma solo un grande amore, dopo la guerra.
D: Di chi si trattava?
R: Di un giovane medico, molto impegnato civilmente. Non ha mai voluto parlare di lui: pensi che non mi ha mai detto nemmeno il nome. Aveva però una sua foto, in camera da letto e nel suo studio, ovunque si trovasse. Questo giovane morì in un sanatorio. Incontrò il grande amore poi la vita la portò ad essere totalmente protagonista di altre situazioni. All’epoca non era facile coniugare le cose.
D: A che cosa rinunciò per mettersi al servizio della Repubblica?
R: Non è una che ha rinunciato, lei ha scelto. Credo che le appartenesse un forte senso di maternità, che spese prima di tutto con le nipoti, e poi, più in generale, con tutte le altre donne.
D: Che eredità lascerà Tina Anselmi?
R: Di coraggio, ma anche di solitudine. Lascerà la forte consapevolezza che le battaglie bisogna combatterle in prima persona, affiancandosi agli altri, ma che la responsabilità è individuale. Un esempio di una donna di grande fede, legata a un profondo senso di spiritualità, generosa, dura, ironica, che non faceva sconti né a se stessa né agli altri. Molto tenera, soprattutto con la sua famiglia. E indipendente, molto libera. Come poche donne sanno essere.
Tratto da: letteradonna.it