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provenzano bernardo eff ppdi Sebastiano Ardita
Proponiamo una testimonianza del magistrato Sebastiano Ardita sul suo incontro avvenuto nella primavera del 2006 con Bernardo Provenzano nel reparto di massima sicurezza dell’istituto penitenziario di Terni. All’epoca dei fatti il giudice Ardita era direttore dell’ufficio detenuti del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), con la responsabilità, tra le altre, di gestire il regime speciale 41 bis. La testimonianza completa si può consultare nel volume dello stesso Ardita, “Ricatto allo Stato” (Sperling&Kupfer 2011).

Il detenuto era seduto, spalle all'ingresso, davanti al banchetto che, insieme al letto e all'armadio metallico, costituiva lo spartano arredamento della sua nuova abitazione. Al richiamo del comandante si voltò, poi lentamente, puntando i piedi sul pavimento, spinse la sedia con la schiena, liberò le gambe e si alzò rivolgendo lo sguardo verso di noi. Aggrottò le sopracciglia per metterci a fuoco e, dopo che ci ebbe inquadrati, ci venne incontro. C'era in vista, aperto a metà sulla piccola scrivania, un malloppo di carte fotocopiate e rilegate, che al nostro arrivo era evidentemente intento a leggere. Era uno dei mandati di cattura che gli erano stati da poco notificati. Mi guardò subito dritto negli occhi, e io mi presentai con nome e cognome, dicendogli la mia funzione. Quante cose avrei voluto dirgli in quel momento... Avevo davanti l'uomo che aveva deciso di far saltare in aria Falcone e Borsellino e le loro scorte. Uno che aveva sconvolto la vita dei mille giovani magistrati entrati in servizio, come me, nel 1991. Che aveva scatenato la nostra vocazione per l'antimafia. Altro che dire, per provocazione, «ammazzateci tutti!» Dopo la seconda bomba noi eravamo pronti davvero a essere ammazzati tutti. Ma non certo rassegnati al dominio della mafia. E ora che me lo trovavo davanti, finalmente nelle mani dello Stato, mi si era paralizzata la lingua. Sentivo che era prevalente il mio nuovo ruolo. Non potevo permettermi di avere il sangue agli occhi. Avvertivo che dovevo garantire la detenzione secondo le regole della legge. E basta. (...) Ma in quel momento non ero più un giocatore, ero l'arbitro.

E così, senza nessuna preparazione psicologica, mi trovai a faccia a faccia con Bernardo Provenzano. Ero in piedi davanti a lui, tutti e due forse un po' imbarazzati. Mi rivolse alcune domande. Cercai di essere chiaro nelle risposte, usando poche parole. Ci parlammo incrociando le pupille. Aveva uno sguardo severo, solo apparentemente bonario. L'espressione di chi ha appena ultimato un lungo impegno. Mi chiese come funzionavano le cose dentro il carcere. Gli dissi che era stato applicato il regime 41 bis e che avrebbe potuto vedere i famigliari per un'ora al mese. Aveva diritto a un pacco al mese e a due ore all'aria aperta al giorno. Mi chiese informazioni sull'assistenza sanitaria in carcere, «perché, quando si va avanti con l'età, non è più come prima...». Lo rassicurai che in carcere sarebbe stato curato sicuramente meglio che in latitanza. Aveva, ben visibile, un gozzo enorme, coperto a stento da un foulard. E poi sapevo dalle cronache che era stato operato alla prostata a Marsiglia, durante la latitanza.

(...) Cambiando argomento, si lamentò poi del fatto che gli erano stati sequestrati alcuni oggetti, e anche la Bibbia che aveva sempre con sé. E si accorse di aver dimenticato in questura un sacchetto che conteneva atti giuridici e alcuni effetti personali, tra cui un pettine e un paio di occhiali. Era come se la sua principale preoccupazione fosse quella di ricreare un ambiente fatto di piccole cose, di abitudini semplici. Era difficile credere che un capo mafia latitante da quarant'anni e che aveva retto da solo, per tredici anni, l'intera organizzazione di Cosa Nostra, potesse dare tanto peso a queste inezie.
Ma erano quelli i particolari che servivano a smitizzarlo, a renderlo simile a tanti altri anziani in cerca solo di un po' di riposo e delle proprie abitudini.
«Ho passato il tempo a leggere», mi disse facendo un cenno verso l'ordinanza che stava aperta sul piccolo tavolo di fronte. «Ho imparato cose che non sapevo, che non potevo nemmeno immaginare...». Naturalmente voleva che io ne deducessi che aveva appreso dell'esistenza di Cosa Nostra solo leggendo quegli atti. Feci in modo di non raccogliere quell'allusione, che peraltro non mi creava alcuna meraviglia. Gli dissi che avrebbe avuto tempo in abbondanza per leggere anche dell'altro. Ma lui aveva voglia solo di leggere la Bibbia.

«È il libro migliore in assoluto, non c'è neanche il paragone con gli altri...» affermò con il tono enfatico e coinvolgente di chi avrebbe voluto iniziare il proprio interlocutore a quella sana lettura. Voleva tornare in possesso della sua copia personale del testo sacro, che conservava gelosamente quando viveva nascosto e gli era stata sequestrata dagli investigatori. Poco male. Avrebbe potuto leggere senz'altro la Bibbia della biblioteca del carcere. Ma lì, purtroppo, mi dissero, tra mille volumi non c'era una Bibbia. E allora chiesi che gliela comprassero. Ma gli raccomandai di cominciare a leggere per il momento solo il Nuovo Testamento e non il Vecchio. Perché nel Vecchio Testamento vi è un linguaggio un po' duro e alcuni concetti si possono equivocare. Il vecchio padrino si accigliò. «È tutta bella, la Bibbia: il Vecchio e il Nuovo Testamento. E poi l'importante è come si legge!». «Appunto!» ribattei. «L'importante è come si legge, per questo il Vecchio Testamento non è fatto per lei. Legga il Vangelo!» Ero proprio diventato un magistrato dell'amministrazione penitenziaria. La fiducia nella possibilità del cambiamento delle persone non mi abbandonava neanche di fronte a Provenzano, la cui esistenza era stata il negativo fotografico dell'insegnamento contenuto nella Bibbia.

Avevo appena finito di dargli quel suggerimento che, collegato al commento del testo sacro, arrivò anche il secondo messaggio: «Prego Dio che mi faccia sopportare tutto quello che è giusto sopportare...». Il tipico modo di dire di chi si affida alla Provvidenza, si direbbe. Ma in quel caso non suonava proprio come un abbandono manzoniano alla volontà di Dio. Di religioso e di devoto in quella affermazione non c'era niente. Anzi, mi parve proprio di sentirci risuonare un avvertimento. L'augurio di riuscire a sopportare quello che era «giusto» non era affatto collegato al riconoscimento delle proprie responsabilità. Il presupposto era infatti che aveva appreso di essere accusato di cose che gli erano sconosciute. Per anni la negazione dell'esistenza di Cosa Nostra è stata una sorta di riconoscimento al contrario dell'essere mafiosi, quasi come il dichiararsi prigioniero politico per i terroristi. Provenzano voleva dirmi, in sostanza, che la sua sopportazione del carcere sarebbe stata corrispondente alla nostra corretta applicazione delle regole. Che anche se non le condivideva, le nostre regole, sarebbe stato in grado di capire se le stavamo applicando in modo giusto. La frase successiva mi tolse ogni dubbio: «Perché nella vita c'è chi è giusto e chi è meno giusto». Come a volermi dire: anche io ti giudico per le cose che fai. Ma di tutto ciò che volle comunicarmi, io ero assolutamente consapevole.

In effetti quel dialogo all'apparenza surreale aveva una sua logica ed era forse l'unica forma possibile di comunicazione fra due mondi contrapposti, antitetici, che provavano a prendersi reciprocamente le misure. Io mi ero imposto di essere preciso e formale, e avevo parlato solo di regole. Lui mi voleva far comprendere che i mafiosi, in quanto a regole, non sono secondi a nessuno, tanto che si riforniscono di precetti direttamente dalla Bibbia. Voleva dirmi che le loro regole erano più antiche e più importanti delle nostre e, consideravo fra me e me, sicuramente anche più efficaci quando dovevano essere applicate. Ma il vecchio padrino non mi lasciò andare senza mandarmi l'ultimo messaggio. Forse non sapeva che me ne sarei tornato a Roma il giorno stesso e avrei influito ben poco sulla sua vita quotidiana. Comunque voleva farmi capire che mi aveva identificato. Aveva riconosciuto il mio accento siciliano. Mi guardò ancora negli occhi e mi diede il compito per casa, consegnandomi una frase tutta da interpretare: «Adesso la mia vita è nelle mani di Dio e degli uomini che hanno il potere». «No, guardi», gli risposi d'istinto, facendo vedere che stavolta non mi sarei sforzato di capire a chi e a cosa si riferisse, «per quanto mi riguarda, la sua vita adesso è nelle mani della legge, che tutti noi abbiamo l'obbligo di far rispettare. Noi non conosciamo nessuno che abbia un potere che sta al di sopra della legge». Lo salutai avviandomi a ripercorrere i passi che mi separavano dall'ingresso, ma il suo sguardo intenso continuavo a sentirmelo addosso anche dopo che ebbi guadagnato l'uscita.

Tratto da: lasicilia.it

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