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tranfaglia-nicola-web3di Nicola Tranfaglia - 6 marzo 2012
Ancora una volta c’ è modo di assistere, in questi giorni, alla fibrillazione delle forze politiche di tutti e due gli schieramenti presenti nell’ultimo parlamento. Nel partito democratico, che è il solo non governato in maniera dispotica da un solo uomo al comando, le primarie che sono di per sé un positivo strumento democratico, generano ogni volta dure polemiche interne e l’ultimo caso è stato quello  della contesa di Palermo in cui si sono scontrati Rita Borsellino e Fabrizio Ferrandelli, che ha prevalso per poco più di cento voti. Un parlamentare del PD ha chiesto che il partito presenti un solo candidato e che siano gli altri partiti della coalizione di centro-sinistra a presentare altri candidati.

Ma una simile proposta confligge con due aspetti, di cui nessuno parla esplicitamente in queste settimane:come si fa a scegliere un solo candidato del PD, se le primarie servono proprio a scegliere chi tra le donne e gli uomini del partito godono del maggior consenso nell’elettorato vicino alla forza politica che indice le medesime elezioni.
Il secondo aspetto è che non sappiamo ancora come elettori  quale sarà la coalizione di centro-sinistra che si misurerà nel 2012 con il centro-destra nelle prossime elezioni amministrative e ancor di più in quelle politiche e generali che dovrebbero svolgersi l’anno prossimo, a meno che ci sia qualche incidente (sempre possibile) che accorci la legislatura.
In queste condizioni è quasi impossibile che le primarie non siano né un “pranzo di gala”(come ha detto con una battuta) Pierluigi Bersani né una scampagnata e saranno sempre una lotta accanita in cui esser sostenuti dalla segreteria romana è un handicap serio a cui sovente si è destinati a soccombere.
Ma questo dipende da un elemento che occorre, a questo punto, esplicitare. L’opinione che la maggioranza degli italiani ha dei partiti politici è giunta ai minimi termini.
Dopo la crisi del 1992 quei partiti non si sono più sollevati dal punto molto basso in cui sono arrivati: non riescono a svolgere il ruolo di elaboratori di programmi né di selezionatori positivi di nuovo personale politico come erano stati nel primo quarantennio repubblicano. E dunque non godono del credito e dell’autorità necessaria per scegliere chi deve partecipare alla gara.
Perciò abbiamo sempre a che fare con più candidati e vince spesso chi riesce ad ottenere l’appoggio o della popolazione non iscritta al partito, o addirittura di partiti alleati al PD che cercano di influire sulla sua linea politica.
Ma questo significa un’altra cosa di cui forse vale la pena discutere. Ed è che la linea politica  del Partito Democratico non è così chiara e presente nei dirigenti, come degli iscritti, da resistere alle pressioni che vengono dal basso o dai possibili alleati.
Questo è un problema con il quale non soltanto l’onorevole Bersani ma anche gli altri leader del partito devono fare i conti con chiarezza, se vogliono condurre verso un porto sicuro la nave che si è avviata in vista di un compito tutt’altro che facile: una ricostruzione dell’Italia dopo il ventennio berlusconiano e quello che sta facendo il govenro di Mario Monti.
Sono d’accordo con Michele Salvati che, nell’editoriale di ieri sul “Corriere della Sera”, ha (almeno in parte) elogiato il lavoro svolto dal cosiddetto “governo tecnico” nel campo delle liberalizzazioni (pur con l’azione contraria delle potenti lobbies che percorrono il nostro paese) come in quello di un primo, parziale risanamento finanziario che era diventato molto urgente. Ma la ricostruzione politica e morale, oltre che economica, dell’Italia è un compito lungo e difficile perché deve misurarsi non soltanto con un debito pubblico che è tra i più pesanti del mondo intero ma anche con un sistema politico ed elettorale che ha bisogno di riforme radicali che, difficilmente, potranno essere fatte in una legislatura che si avvia stancamente alla sua ingloriosa  conclusione.  

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