È una contraddizione in termini essere “onorevoli” rappresentanti del governo della nazione e, al tempo stesso, avere rapporti con i boss o intascare mazzette da chi riceve appalti e commesse pubblici
Due degli argomenti più divisivi della politica italiana sono il peso che la corruzione ha svolto nella nostra storia unitaria e il rapporto che esponenti dei partiti e delle istituzioni hanno intrecciato con le mafie.
E poiché la corruzione è uno dei reati più stigmatizzati dalla pubblica opinione (al punto che la reazione a essa ha caratterizzato alcuni passaggi della nostra storia, sicuramente quello avvenuto tra il 1992 e il 1994) e poiché la mafia è considerata dalle leggi dello Stato italiano uno dei nemici principali della nostra democrazia, la domanda semplice è questa: si può essere considerati “statisti” e al tempo stesso essere stati condannati per corruzione? Si può essere stimati grandi leader politici e al tempo stesso avere avuto rapporti accertati con esponenti mafiosi? Insomma, i politici corrotti e quelli che hanno interloquito con la mafia possono essere annoverati tra i più autorevoli e significativi esponenti dello Stato italiano? Addirittura indicati come padri della patria? È evidentemente una contraddizione in termini essere rappresentanti “onorevoli” del governo della nazione e amici dei mafiosi o prendere mazzette da chi riceve lavori e commesse pubbliche. L’onore e l’immoralità, l’onore e le relazioni con le mafie sono assolutamente incompatibili. Non si può, ragionevolmente, essere amici dei nemici dello Stato, non si può rappresentare la nazione e tradire le sue leggi.
Certo, nella valutazione della vita di un leader politico non vanno considerate esclusivamente le azioni corruttive o contrarie alle leggi. Incidono, e come, anche altre caratteristiche, altre decisioni, altri momenti della sua complessa e contraddittoria azione pubblica. E se una valutazione etica dell’attività politica è insufficiente ai fini di un giudizio storico, non si può al tempo stesso immaginare di prescinderne totalmente. In fondo cos’è l’etica in politica? È semplicemente valutare l’azione pubblica in rapporto agli interessi generali e non particolari o privati. Quindi, se si continua a ritenere non decisiva al fine di un giudizio storico una condanna per corruzione di un politico o le sue accertate frequentazioni mafiose, ciò può voler dire solo due cose: o che quel politico non ha commesso i reati contestatigli dai tribunali o che i reati di corruzione e di contatti con la mafia non sono considerati così gravi al punto di macchiarne e oscurarne la fama.
Personalmente opto per la seconda interpretazione. In Italia c’è una contraddizione lampante tra alcuni reati e la percezione della loro gravità da parte del mondo politico. Infatti, la corruzione e la frequentazione dei mafiosi sono considerati comportamenti gravissimi dalle leggi dello Stato ma non da tutti coloro che si trovano, in determinati periodi, a rappresentarlo e a farne applicare le leggi.
Gran parte dei politici di governo che hanno praticato la corruzione non dimostrano semplicemente una scarsa considerazione della legge, ma sembrano obbedire a loro specifiche leggi. Come se essi fossero esentati, in virtù di un potere speciale che gli ha fornito il voto popolare, dalle regole che valgono per i normali cittadini. Una specie di ordinamento giuridico-amorale parallelo. La prima regola di questo ordinamento speciale è la seguente: la politica va pagata. Chi vende il proprio ruolo è consapevole che gli altri considerano la sua funzione un potere e non un dovere, e perciò gli attribuiscono un prezzo se agevola i propri interessi economici. Non c’è biasimo né vergogna per questa funzione perché non si pensa di superare un limite morale invalicabile, ma solo un limite artificiale di legge. Perciò, la corruzione viene considerata da chi la pratica una privatizzazione e una monetizzazione del potere politico o amministrativo e non una sua manifesta degradazione. In diversi ambienti si ritiene irragionevole rinunciare a delle opportunità di arricchimento o di allargamento del proprio peso politico o economico solo perché facendolo si viola la legge, a meno che le violazioni non vengano energicamente disapprovate dal proprio ambiente sociale. Ma, purtroppo, nel mondo politico e imprenditoriale violare la legge consente spesso un incremento di status e di opportunità, rispettarla una diminuzione.
Incide, poi, un’altra legge “ufficiosa”: il convincimento che nel rispetto delle regole ufficiali non si è in grado di governare al meglio. Questo convincimento è parte della cultura della classe dirigente del Paese. Un uomo di potere, una professione o un’occupazione di potere non è tale se non è in grado di aggirare la legge senza conseguenze. In Italia l’abuso è una caratteristica del potere e non un suo limite, non un travisamento. Perciò il reato di abuso di potere è stato abolito ufficialmente dal Codice penale, trovando tutti d’accordo, anche una parte dell’opposizione. Insomma, la corruzione è un fenomeno illegale ma troppo spesso autolegittimante.
Per quanto riguarda il rapporto con le mafie, valga una semplice constatazione: da più di un secolo e mezzo abbiamo a che fare con il fenomeno mafioso, eppure non ne veniamo a capo. Leonardo Sciascia ci ricorda che “La democrazia non è impotente a combattere le mafie. O meglio, non c’è niente nel suo sistema, nei suoi principi che necessariamente la porti a non combattere la mafia o a imporle una convivenza con essa”. Abbiamo sconfitto il brigantaggio, il separatismo regionale, il terrorismo rosso e nero, ma le mafie non ancora. Perché mai? Semplicemente perché le violenze solo predatorie o quelle a finalità politiche (il terrorismo) non riescono a trasformarsi in potere stabile e duraturo. Nessun ladro di appartamenti diventa sindaco, nessun terrorista diventa capo di governo se non a seguito di rivoluzioni popolari. La violenza privata ha un ruolo unicamente se non si contrappone frontalmente alle forze che rappresentano lo Stato e le istituzioni legittime, solo se trova la possibilità di allearsi con loro e di stringervi un patto. Negli Stati moderni nessuna forma di potere, soprattutto se illegale, può affermarsi, consolidarsi, durare tanto a lungo se non è in relazione permanente con il potere ufficiale. Se le mafie, quindi, durano da tanto tempo nella storia d’Italia, ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato con esso.
Ma non ci spiegheremmo mai il successo delle mafie senza considerare anche i contatti con il mondo economico. Per tanti imprenditori la mafia è un costo e una tragedia, per tanti altri è stata un’occasione di ulteriore successo sul mercato. La nazione italiana, certo, non è dominata dalla mafia, ma è del tutto evidente che non c’è stata nessuna difficoltà a convivere con i mafiosi per così lungo tempo.
Per usare ancora le parole di Sciascia, la mafia è “un’integrazione riuscita di una forma criminale nel potere”. Si potrebbe dire a ragione che i rapporti con il fenomeno mafioso da parte delle classi dirigenti locali e nazionali (e da parte del mondo istituzionale e imprenditoriale) rappresenta la più estesa “zona grigia” della nostra storia nazionale. Almeno cinque presidenti del Consiglio dei ministri dal 1861 in poi hanno avuto relazioni stabili con il mondo mafioso. Almeno due nel Secondo dopoguerra. Definirli statisti è un’offesa alla ragione prima che alla morale.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano
Foto © Imagoeconomica