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I rapporti del senatore di Forza Italia Tonino D’Alì con la mafia ci sono stati, non erano frutto di fantasie investigative di magistrati o investigatori. Nessuna persecuzione giudiziaria. E se la vogliamo dire tutta per intero, anche nessuna mania giornalistica accusatoria, almeno da parte di alcuni giornalisti che in tanti anni hanno sempre preferito guardare e raccontare, e non girarsi come certuni dall’altra parte oppure addirittura partecipare a nascondere il malaffare per fare apparire tutto limpido e pulito, quando così non era, perché puntualmente c’era chi aveva il compito di mettere la sporcizia sotto al tappeto. Ciò che talvolta accadeva nelle stanze delle pubbliche istituzioni spesso era il frutto di decisioni mafiose o concertate con Cosa nostra; per esempio, il trasferimento di un prefetto diventato scomodo. Da senatore e sottosegretario all’Interno a prossimo detenuto, condannato in via definitiva per il reato di concorso esterno in associazione³ mafiosa. L’ordine di esecuzione della carcerazione, a sei anni, da parte della Procura generale è scontato e non è da escludere che D’Alì lo anticipi consegnandosi in queste ore spontaneamente al carcere. Ha atteso la decisione della Cassazione lontano da Trapani, forse proprio a Roma. Dove ha casa dalle parti di piazza dei Caprettari a un tiro di schioppo da Palazzo Madama. E’ questa la parabola discendente di Tonino D’Alì: contro di lui è definitiva la condanna a sei anni, e questo da ieri, da quando nel tardo pomeriggio la Cassazione ha pronunciato il rigetto del ricorso della difesa, facendo diventare definitiva la pena inflitta.
Il barone Tonino D’Alì cominciò la carriera da deus ex machina di una delle banche più antiche della Sicilia, la Banca Sicula, nata nel 1883 e ceduta nel 1993, pare con la mediazione dell’eminenza grigia delle banche italiane Enrico Cuccia, alla Banca Commerciale. Tonino, sempre vicinissimo allo zio Antonio, presidente della Banca ma anche uno degli iscritti alla P2 di Licio Gelli, con la Banca Sicula nelle mani è stato artefice dei destini politici ed economici della città di Trapani dai primi anni ’80, ma anche della Sicilia, dal famoso 61 a zero in poi, quando Forza Italia spadroneggiava tra Palermo e Roma, e D’Alì in prima fila col ruolo pure di longa manus dei mafiosi. Contro di lui le prive del “patto” con i famigerati Messina Denaro, Francesco e Matteo, padre e figlio. Erano i suoi campieri, erano loro a sovraintendere ai suoi vigneti e uliveti in contrada Zangara nelle campagne di Castelvetrano: al maggiore dei figli di “don” Ciccio Messina Denaro, Salvatore, però coltivare la terra non piaceva e così trovò un buon posto di lavoro all’interno della Banca Sicula, mantenuto col passaggio alla Comit, quando fu arrestato nell’inverno del 1998, era preposto di uno sportello a Menfi. D’Alì favorì i Messina Denaro in vari modi, anche attraverso la vendita fittizia di una parte dei suoi terreni. Il prestanome dei boss, Francesco Geraci davanti al notaio consegnò i soldi, circa 300 milioni di vecchie lire, poi D’Alì restituì il denaro, e intanto padrone del terreno diventava il famigerato Totò Riina. Una operazione di puro di riciclaggio.
“Ladri e assassini fanno quello che vogliono, e la polizia, con il pretesto di mantenere l’ordine, sta sui campi di calcio.. per guardare la partita! Oppure gioca a fare la guardia del corpo del senatore Ardoli, non è necessaria, basta uno sguardo al suo viso per morire di paura!” E’ un passaggio di uno dei libri usciti dalla penna del “maestro” Andrea Camilleri. E’ “La gita a Tindari”: il solito commissario Montalbano nell’occasione, cercando di risolvere uno dei suoi gialli, si trova a Trapani e per telefono il fidato ispettore Fazio gli chiede cosa facesse a Trapani non ricevendo però dal suo commissario una risposta precisa, “poi ti dirò” ma intanto Montalbano gli descrive Trapani con queste poche parole…”ladri e assassini fanno quello che vogliono”. E Ardolì pare proprio la controfigura del senatore D’Alì. Non tutto è frutto di fantasia. Per anni a Trapani la lotta al crimine non è mai stata una costante nell’agenda di chi doveva occuparsene, e questo mentre anche D’Alì cresceva nel suo potere, e in città diventava forte il rapporto tra mafia e massoneria. Uno scenario che esce fuori dal processo contro il senatore Tonino D’Ali’. A cavallo tra i due secoli XX e XXI, il senatore D’Ali’ non può dirsi che sia stato estraneo alle dinamiche di Cosa nostra,
E’ un racconto questo che consegue dalla lettura delle motivazioni della sentenza pronunciata nel luglio 2021 dalla Corte di Appello di Palermo, e che appartiene a Tonino D’Alì, manovratore per decenni dei destini non solo della provincia di Trapani, ma anche della Sicilia. Sempre al fianco dei potenti come Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, vicino a Renato Schifani e per un periodo, quando ruppe con Berlusconi, diventò fidatissimo di Angelino Alfano. In questa ultima fase politica meno pubblica si dice che si era avvicinato a Fratelli d’Italia. Una carriera politica cominciata in maniera nascosta, quando la mafia lo aveva individuato come possibile candidato del partito Sicilia Libera, poi l’adesione pubblica a Forza Italia mentre Sicilia Libera scompariva da ogni orizzonte, e quindi l’ingresso in Senato nel 1994. Da dove è uscito nel 2018, quando in pieno declino politico dovette pure rinunciare alla corsa a sindaco di Trapani, dopo essere stato presidente della Provincia, per la richiesta della Procura antimafia di Palermo, accolta dal Tribunale di Trapani, di applicazione della sorveglianza speciale, provvedimento che interruppe la sua campagna elettorale, anche se poi la decisione di primo grado venne annullata in appello e in Cassazione, in quanto per i giudici i rapporti con la mafia non erano più in essere all’epoca della richiesta.
Dopo l’elezione del 1994 e con la nomina a sottosegretario all’Interno, era diventato un “re” con tanto di trono sul quale poter sedere, la poltrona al Viminale occupata per cinque anni dal 2001 al 2006. Lui, che era stato a stretto contatto con i pericolosi mafiosi Messina Denaro, venne scelto da Berlusconi, capo del Governo, per entrare al ministero dell’Interno, in un ufficio a pochi metri da dove l’intelligence della Polizia si occupava, e si occupa ancora, della ricerca del latitante Matteo Messina Denaro, in fuga dal giugno del 1993. Quel quinquennio tra il 2001 e il 2006 fu segnato dal grande evento della Coppa America che portò a Trapani fama e tanti soldi. Appalti sui quali Cosa nostra tese le sue mani, davanti alla città che festeggiava la vela e il senatore. Strategie e movimenti che intanto venivano seguiti e anche intercettati dalla Squadra Mobile di Trapani. Nel 2003 i mafiosi parlavano disprezzando il prefetto Sodano, il capo mafia Pace fu ascoltato dire che presto se ne sarebbe andato. E così avvenne, nel giro di 24 ore nel luglio 2003, il Consiglio dei Ministri decise di spostare Sodano da Trapani ad Agrigento, sebbene 24 ore prima il capo di gabinetto del ministro Pisanu aveva rassicurato Sodano che sarebbe rimasto a Trapani. I giudici di appello hanno ricostruito anche questa vicenda: l’episodio è prova “sufficiente a dimostrare il contributo offerto da D’Alì a sostegno degli interessi mafiosi”.
La Cassazione ha rigettato il ricorso ieri nel tardo pomeriggio. La difesa aveva provato a chiedere l’annullamento della sentenza di appello pronunciata nel luglio 2021. Ma la seconda sentenza di appello ha un carattere monumentale. Raccontare il processo contro Tonino D’Alì, significa raccontare anche una parte della storia del nostro Paese, dove contro le indagini giudiziarie si è sempre inventato di tutto per bloccarle, oppure significa ripercorrere i modi per ritardare i processi, per poi dire che è l’organo inquirente incapace di lavorare. Il processo contro il senatore D’Alì cominciò nel 2011 e si concluse nell’autunno 2013 con una sentenza “andreottiana”, assolto per i reati commessi dopo il 1994 , prescritto per il periodo precedente. Sentenza confermata dai giudici di appello nel 2016. Ma mentre D’Alì e “cerchio magico” cantavano vittoria, la Cassazione bocciava nel gennaio 2018 la sentenza, facendo ripetere il processo di appello. Fu una censura pesante quella della Cassazione che definì illogica la separazione in due periodi della condotta del senatore: vicino ai mafiosi sino al 1994, diventando quasi un illibato nel periodo successivo, come se l’essere diventato parlamentare lo aveva purificato da ogni reato e compromissione. La seconda sentenza di appello arrivò nel luglio 2021, stavolta con una pesante condanna. Nella sentenza i giudici ritennero provata l’accusa: “D’Alì con piena coscienza e volontà ha favorito Cosa nostra per più di 20 anni”.

Contro D’Alì hanno pesato alcuni interventi fatti proprio mentre era sottosegretario all’Interno, come il trasferimento da Trapani in un battibaleno dell’allora prefetto Fulvio Sodano, che si era scontrato con lui proprio a proposito della difesa, esercitata dal prefetto, dei beni confiscati, come l’impresa Calcestruzzi Ericina che senza l’aiuto di Sodano sarebbe andata fallita, e che apparteneva al boss ergastolano Vincenzo Virga. Sodano si batteva contro la soverchieria mafiosa, D’Alì lo affrontò dicendo che stava favorendo le imprese confiscate. E a proposito di Virga: tra gli atti del processo la circostanza di un telegramma ricevuto da D’Alì dal carcere e ritenuto provenire proprio da uno dei figli del boss, che lamentava come loro si stavano facendo il carcere mentre lui si godeva ogni successo. C’è poi la vicenda del tentato trasferimento da Trapani del Capo della Mobile, Giuseppe Linares, proprio mentre questi si occupava di indagini per la ricerca di latitanti, e dei rapporti tra mafia, politica e imprese. Circostanze svelate in diversi verbali dal collaboratore di Giustizia, Nino Birrittella, e poi anche da un coraggioso sacerdote, Ninni Treppiedi, che per un periodo si ritrovò vicino al senatore D’Ali, tanto da raccogliere “segretissime confidenze”, e dal quale si divise dopo avere ricevuto determinate pesanti richieste di intervento, per condizionare alcune testimonianze. Secondo le motivazioni depositate l’anno scorso dai giudici della Corte d’Appello di Palermo, “D’Alì ha certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell’associazione mafiosa e ciò lo si può desumere dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa nostra”. Un politico che non ha rispettato la distanza di sicurezza dalla mafia, anzi per i giudici ha “intrattenuto relazioni con l’associazione mafiosa”, almeno, fino al 2006, agevolando la mafia di Matteo Messina Denaro, che nel 92 e 93 andava in giro a compiere stragi mentre risultava dipendente del senatore. Nella sentenza di appello adesso confermata si legge come D’Alì ha stretto un patto politico/mafioso con Cosa nostra in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale. D’Alì, insomma, il coperchio di una pentola dove per decenni si sono mischiati rapporti tra mafia e istituzioni, sarebbe stato il testimone del passaggio dalla mafia rurale a quella più moderna della mafia diventata impresa. Il processo lo ha riconosciuto essere quello che da tempo determinati investigatori e magistrati ritenevano che fosse cioè esponente della cosiddetta mafia borghese, e questo a dispetto di una società civile spesso loro ostile. Discrasie colte nel corso del processo da alcune parti civili, come quella che rappresentò l’associazione Libera che in questi anni anche a Trapani per fortuna è riuscita a dare alcune precise scosse, che hanno almeno fatto aprire gli occhi ad alcuni settori sociali.
Nel processo sono entrate le indagini avviate nei primi anni ’90 dall’allora capo della Squadra Mobile Rino Germanà, che nell’autunno del 1992, dopo l’omicidio di Paolo Borsellino e la strage di via d’Amelio, sfuggì ad un agguato che gli era stato teso da tre capi mafia, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella. Indagini raccolte e riprese a metà degli anni ’90 dal pool di investigatori antimafia della Squadra Mobile trapanese diretta da Giuseppe Linares, oggi a capo della struttura del Viminale che si occupa di sequestri e confische, e coordinate da un pool di magistrati, in particolare dai pm Paolo Guido e Andrea Tarondo, a capo delle indagini dopo che anni prima altri magistrati avevano mandato in archivio le indagini, anche sostenendo di non avere identificato il D’Alì che si rapportava con i mafiosi. E invece era lampante il rapporto che esisteva tra D’Ali e i Messina Denaro e la vicenda della vendita fittizia dei terreni di contrada Zangara. Nella parte finale dell’istruttoria processuale, durante la fase coordinata dal sostituto procuratore generale Nico Gizzo, arrivarono le investigazioni dei Carabinieri, una indagine condotta dal Reparto Operativo comandato dal colonnello Antonio Merola, che portò i militari dell’Arma a potere fotografare D’Alì in compagnia di esponenti della mafia rurale del trapanese.
Un rapporto con Cosa nostra di “perdurante solidità”, D’Alì non è stato un uomo di Cosa nostra “ma i rapporti sono stati di una straordinaria perpetuazione”. Un politico che per decenni è stato a contatto con il “Gotha” di Cosa nostra…con una costante e multiforme disponibilità”. Ancora oggi la scheda parlamentare di D’Alì lo presenta come “banchiere” e “agricoltore”, e i giudici ritengono che proprio in tutti e due gli ambiti l’ex senatore ha coltivato e sviluppato i legami con la potente Cosa nostra trapanese, con la mafia dei Messina Denaro ritenuta forte per via dei collegamenti con i boss palermitani Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ai quali – hanno riferito diversi ex uomini di Cosa nostra diventati collaboratori di giustizi, come il mazarese Vincenzo Sinacori – D’Alì veniva indicato come “soggetto di massima fiducia”. Politico col quale i mafiosi potevano permettersi ampia confidenza. I rapporti con Virga padre in particolare sono stati raccontati dal pentito Vincenzo Sinacori , “era noto che Vincenzo Virga aveva sempre buone possibilità di rivolgersi a D’Alì (ancora prima della sua elezione a senatore ndr) per qualsiasi cosa”. Legami spiegati anche da un altro pentito, Nino Giuffrè, boss di Caccamo, braccio destro di Provenzano: Giuffrè riferì quanto spesso sentì dire in un arco di tempo compreso tra il 1985 e il 1992, e cioè che D’Alì “era vicino ai mafiosi trapanesi” traducendo quel vicino “quale persona che faceva favori alla mafia”. Giuffrè indicò D’Alì ai pm antimafia, per come lo aveva avuto indicato da Bernardo Provenzano, “un personaggio importante, pedina delle dinamiche mafiose già dalla seconda metà degli anni ’80”. Ruolo ancora meglio delineato dall’imprenditore Nino Birrittella, uno dei componenti reo confessi della cupola trapanese, che raccolse le confidenze su D’Alì da parte di tre mafiosi di gran rango, Vincenzo Virga, Ciccio Genna e Ciccio Pace. “Persona nostra nelle mani nostre” così ha riferito di averlo avuto presentato (indirettamente) un altro ex mafioso, il pentito Tullio Cannella.
La condanna definitiva di D’Alì racconta altro. Dentro c’è la storia degli ultimi 40 anni della Sicilia, a cavallo tra due secoli, l’attuale e il precedente,dove mafia, politica e banche si sono parecchio incrociati diventando spesso in certi luoghi un’unica cosa. A Trapani in particolare, dove altro ingrediente di questa criminosa commistione è anche la massoneria. E se con le logge non si incrocia chiaramente il nome del barone Tonino D’Alì, ne fa cenno il pentito calabrese Fondacaro, c’è certamente quello dello zio dell’ex senatore, Antonio D’Alì, che risultò iscritto alla P2 di Licio Gelli. Di quello stesso Gelli che tra i suoi spostamenti ebbe spesso Trapani come destinazione, quando veniva a far visita ai “fratelli” della loggia segreta Iside 2. Ci sono i segreti svelati anche dall’ex moglie di D’Alì, Maria Antonietta “Picci” Aula, che ha ammesso la propria conoscenza dei rapporti pericolosi dell’ex marito con i mafiosi e con i Messina Denaro segnatamente.
Siamo in provincia di Trapani, un territorio dove la mafia regna senza soluzione di continuità e questo almeno dall’800, nel 1838 il prefetto, Ulloa scriveva al Procuratore del Re, descrivendo il territorio trapanese coperto da un amalgama di poteri difficili da penetrare. Qui le cose si vengono a sapere, con circa mezzo secolo di ritardo. Un esempio sono le pagine della sentenza sull’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, la mafia aveva messo in giro la voce che era un delitto passionale, o le tremila pagine di motivazione della sentenza sulla uccisione del giornalista e sociologo Mauro Rostagno. A 34 anni di distanza da quel delitto, adesso si può dire, per la sentenza definitiva di condanna del boss Vincenzo Virga, che a dare l’ordine di uccidere Rostagno, “pericoloso ficcanaso” per i mafiosi, fu proprio don Ciccio Messina Denaro, il campiere di casa D’Alì.
 
Tratto da: alqamah.it

Foto © Imagoeconomica

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