“I senza nome”. Non è un film di avventurieri o di agenti segreti. È il titolo di uno splendido docufilm su Lampedusa che racconta come quell’isola simbolica offra la terra del decoro a chi vi è arriva dal mare privo di nome, il viso deformato dall’ultimo terrore, sbattuto come pacco dalle onde. Accolto da esseri sconosciuti che mantengono acceso il barlume della pietas. E che dunque dedicano la vita a dare a lui e a mille altri come lui sepoltura in terra straniera, a cercare il suo nome, a scriverlo per i posteri, anche con l’indice che affonda nella calce. Cambiando il suo destino almeno da morto: nessuno prima, ma segnato da una sua sacralità dopo, in mezzo ai fiori e alle piante di un cimitero che è insieme storia, cuore e religione. È un docufilm che insegna cose grandi e profonde.
Proiettato in anteprima in un’aula di Scienze Politiche dell’università di Milano, ha lasciato senza fiato gli studenti. Che difficilmente dimenticheranno una testimonianza tanto radicale del loro tempo. Senza tentare qui una recensione che non mi spetta, dirò dunque che in quaranta minuti ho avuto la più convincente, perentoria dimostrazione che la comunicazione non deve essere per forza scoppiettante, ritmi e immagini rutilanti, veloci-mi-raccomando-sennò-la-gente-si-addormenta. Ma quale addormentarsi, le immagini scorrono lente come nel Sale della terra di Salgado, sembrano onde del mare in un pomeriggio di bonaccia. La cazzuola che assesta e riassesta la calce intorno a un nome, a una mattonella decorata su una tomba, sembra guadagnarsi il paradiso proprio per la sua lentezza. Il colore blu del cielo su cui neanche una nuvola osa comparire, appare immobile proprio mentre si sta celebrando il dramma epocale della mobilità dell’uomo. Ci si chiede chi abbia sancito per tutti che anche l’arte deve andare di corsa, che dal cinema debbano nascere impressioni sincopate e non pensieri che vagano nell’animo scuotendolo.
Mentre ti incolli alle sequenze scopri poi ancora una volta la grande e consolante lezione altre volte appresa. Che quando il mondo sfodera la sua faccia più cinica e feroce, quando la morte si mescola con il nostro alito, vi è sempre qualcuno che ribalta l’idea che ci stiamo facendo della società umana. Qualcuno che lo fa senza saperlo, semplicemente assecondando i propri istinti e sentimenti, incontrando con sguardo involontario un suo simile e mettendoglisi silenziosamente a fianco. Una scopa per pulire, un fazzoletto per detergere, un bacio leggero, mani che si stringono. Per restituire dignità alle storie altrui, e farsene carico davanti agli altri con fierezza mai declamata. Tra disegni di barche e fili spinati che sembrano balocchi ce lo fanno riscoprire Francesco Paolucci, Francesco Piobbichi e Claudio La Camera, a vario titolo creatori di questa suggestione filmica. Hanno detto agli studenti di avere cercato di evitare la pornografia del dolore e della tragedia. Sia quella dei cattivi sia quella dei buoni. Di avere voluto offrire un’opera che faccia pensare, che commuova, ma che non faccia piangere, che sappia rimanere al di qua del pianto che solleva e redime senza merito.
Ma vi è una terza grande lezione in questo film. Che forse abbiamo già in tanti fatto nostra senza però mai metterla a tema, senza ammettere che è saltato un luogo comune della nostra saggezza popolare. Quello secondo cui le diseguaglianze esistono certo, e sono anche ingiuste. Ma poi arriva la giustizia divina a riparare. Perché è nel punto di arrivo che torniamo tutti uguali, nella morte che, come diceva Totò, è la grande “livella”. Ma il film ci spiega che non è vero, che siamo diseguali anche nella morte. Chi sepolto e chi no, chi pregato e chi no, chi ricordato e chi no. Da qui un lampo: che l’homo pius sia di molto più grande dell’homo sapiens. E che solo da lui possa nascere una nuova idea di civiltà.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 28 novembre 2022