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Quando impazza il caldo la testa può andarsene per i fatti suoi. E ripescare memorie stravaganti, che il tempo ha inchiodato nelle nostre riserve più remote. E così, quasi qualcuno mi volesse raccontare un apologo, mi sono rivisto d’improvviso non ancora trentatreenne. Diciamo settembre 1982, quarant’anni fa. Il mese dell’omicidio di mio padre. Il precedente era un’intervista che avevo fatto a Giorgio Bocca per “la Repubblica” andata in edicola l’8 settembre. Dissi a Bocca: “cercate i mandanti nella Dc di Palermo”.
Io in realtà, e non gratuitamente come si sarebbe visto, andavo con lo sguardo anche al di là di Palermo e della Sicilia. Non per impeto polemico, ma per considerazioni ragionate, che sarebbero poi state comprovate dal diario di mio padre. Fatto sta che l’accusa, con l’Italia ancora scossa alle fondamenta da quella morte, provocò un’iradiddio.
La sera sotto casa mia a Milano fu un brulicare di personaggi sconosciuti. Tanto che quattro miei amici decisero di passare la notte nel mio salotto. Quel viavai minaccioso continuò per due-tre giorni.
Dopo un paio di settimane andai al cimitero di Parma, dove mio padre era sepolto. Al ritorno mi accorsi d’improvviso che il vagone in cui avevo preso posto era assolutamente vuoto. C’erano solo due tipi affacciati al finestrino del corridoio e che da lì mi controllavano fumando. Uno dei due entrò e si sedette davanti a me. Fece un movimento con il bordo interno della giacca che non riuscii a decifrare. A quel punto cercai di cambiare vagone. Impossibile, i passaggi ai vagoni comunicanti erano blindati. Pensai in un lampo “questi mi faranno del male appena arrivati a Milano”. Mi affacciai allora sotto gli occhi dei due alla portiera del treno; e al primissimo cenno di movimento da Milano Rogoredo, allora si poteva, mi gettai giù ruzzolando su una signora.
Mi rifugiai di corsa dai carabinieri. Il comandante di Milano, il colonnello Cesare Vitale, mi chiese se volevo una scorta. Ce ne erano tutti i presupposti. Risposi di no, che preferivo andare a dormire da alcuni amici per una settimana.
Tornato a casa, una sera d’autunno rividi uno dei due all’angolo della strada. Di nuovo con la sigaretta in bocca. Di nuovo, non chiesi la scorta.
Ecco, mi sono chiesto durante queste giornate in cui il sole avvampa la nostra immaginazione, che cosa sarebbe stato della mia vita se l’avessi accettata. Una volta assegnata, nessun ministro dell’Interno me l’avrebbe mai revocata.
Non sarei arrivato al maxiprocesso a Palermo, dove avrei dovuto testimoniare contro Andreotti, come uno sconosciuto, su una stradina solitaria da via Duca della Verdura. La mia vita sarebbe stata segnata dalla scorta, anche perché è da quarant’anni che scrivo, insegno, predico e denuncio la mafia nelle sue diverse forme, anche all’estero.
E le mie povere analisi sarebbero valse dieci volte di più perché sarei stato “il sociologo con la scorta”. Di più: in quanto tale sarei stato conteso tra i più famosi salotti televisivi.
Ho invece semplicemente dovuto guardarmi intorno e chiedere a mia moglie, per decenni, di affacciarsi al balcone prima del mio rientro, fin quando una volta, saltata la luce nel quartiere, è stato scardinato (segato) il portone dell’ingresso al condominio.
Insomma, come avrete compreso, mi capita di riflettere su come nascono le strade che ci portano da una parte o dall’altra della vita. Su come le nostre scelte, a volte semplicemente dettate dal pudore o dall’orgoglio, ci privano di qualche capricciosa cornucopia.
Voi mi chiederete a questo punto se mi sono pentito di avere detto “no grazie” al caro colonnello, poi generale, Vitale. Risposta: no, lo rifarei. Per pudore e per orgoglio.
(Chi ha voglia di capirne di più si legga il mio “L’ideologia della scorta e il movimento antimafia. Contro-narrazione dell’eroismo” scritto sull’ultimo numero della rivista “Etica Pubblica”)

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 11/07/2022

Tratto da: liberainformazione.org

Foto © Imagoeconomica

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