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Barcellona al centro di trattative e trame occulte

Col suo assassinio, l’8 gennaio di ventinove anni fa, si impedì il disvelamento della centralità di Barcellona Pozzo di Gotto nelle dinamiche criminali implicitamente e alle volte perfino esplicitamente golpiste che portarono alla cosiddetta “Seconda Repubblica”. Anzi, può ben dirsi che fra i mattoni con i quali la “Seconda Repubblica” fu edificata uno, non marginale, fu rappresentato dalla sua uccisione.
Beppe Alfano era “solo” un insegnante di scuola media. Ma per passione, in quell’apparente periferia dell’impero che nell’oscurità partecipava alle decisioni sui destini della Nazione, Beppe Alfano insegnò a tanti cosa significasse, davvero, fare il giornalista, come si cercassero le notizie, come si mettessero insieme le informazioni per ricostruire il quadro complessivo della realtà e come quel quadro si rendesse infine comprensibile ai lettori. Il tesserino di giornalista, però, l’ordine dei giornalisti si ricordò di concederglielo solo dopo la sua uccisione.
Fare quel che Alfano faceva,
tuttavia, metteva a rischio della vita, in un posto come Barcellona Pozzo di Gotto. In pochi ricordano come a quello che si presentava come un circolo culturale e al contempo come il salotto del potere barcellonese fossero contemporaneamente iscritti politici, magistrati, alti funzionari, imprenditori e, presenze immancabili nel potere barcellonese, i boss Rosario Cattafi e Giuseppe Gullotti.
A portare alla morte di Beppe Alfano, naturalmente, oltre al coraggio di vedere e capire e raccontare quello che accadeva a Barcellona Pozzo di Gotto fu la solitudine nella quale si trovò quando fece la scoperta più clamorosa di tutte: che il latitante Benedetto Santapaola alloggiava proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, godendo di coperture al di sopra (o al di sotto) di ogni sospetto. Di quella scoperta Alfano, mentre approfondiva lo sguardo sulle protezioni anche istituzionali di quella latitanza, mise a conoscenza personaggi istituzionali di cui si fidava, per primo un magistrato arrivato da poco a Barcellona Pozzo di Gotto e che gli era apparso, parecchio ingenuamente, come l’uomo che avrebbe scoperchiato il malaffare in quel territorio. Olindo Canali, questo il nome di quel magistrato, oltre a essere il ricettore di quella enorme informazione da parte di Beppe Alfano, fu anche il pubblico ministero che fin da subito diresse le indagini sull’omicidio del giornalista. Chissà come, assunta la guida delle indagini, immantinente dimenticò quella importantissima confidenza fattagli dalla vittima. La conseguenza fu che le indagini si allontanarono subito dal cuore nero di Barcellona Pozzo di Gotto, da quell’impasto di Stato e antiStato che erano i vertici mafiosi barcellonesi. A questo deragliamento fu utile la “collaborazione” con la giustizia di un piccolo spacciatore, Maurizio Bonaceto, che forse fu usato poco tempo dopo come fonte di ispirazione di uno dei depistaggi più gravi della storia repubblicana, quello sulla strage di via D’Amelio. Bonaceto, probabile precursore di Vincenzo Scarantino, e come Scarantino autore contestualmente di dichiarazioni vere (la responsabilità di Giuseppe Gullotti) e di altre false, era stato coltivato dal Sisde prima di “collaborare” con la giustizia, come solo oggi si sa, perché risultante da documenti ufficiali venuti fuori a distanza di decenni dall’omicidio Alfano.
È ancora aperto presso la D.d.a. di Messina un procedimento penale in fase di indagini nato esattamente diciotto anni fa, sulla scorta di dichiarazioni pubbliche di Sonia Alfano, figlia dell’ultimo cronista assassinato da Cosa Nostra. Qui occorre dire una cosa. Conseguenza dell’omicidio Alfano furono anche i titanici sforzi di sua figlia nella ricerca della verità, in un impegno pubblico che trovò il momento apicale nell’assunzione, da parte della figlia di Beppe Alfano, del ruolo di presidente della prima (e temo pure ultima) Commissione antimafia che fu costituiti all’interno del Parlamento europeo. L’ultima frontiera del procedimento nato nel 2003 ha visto il Gip di Messina, l’anno scorso, ordinare ai pubblici ministeri ulteriori indagini su un revolver calibro 22 e sulla possibilità che sia quella l’arma utilizzata per l’omicidio Alfano. Nell’ordinanza del Gip si spiega come il formale titolare di quell’arma, l’industriale milanese Franco Mariani (qui si dovrebbe aprire una lunghissima parentesi su come alle volte perfino Milano, come Messina, fu provincia di Barcellona Pozzo di Gotto: ho provato a raccontarlo con Antonella Beccaria e Mario Vaudano nel libro “I soldi della P2”, edito da Paper First), fosse in strettissimi rapporti con Rosario Cattafi. Le tracce di quell’arma, di cui aveva avuto notizia il pm Canali e che però era incredibilmente rimasta estranea al fascicolo, riuscii a rocambolescamente rintracciarle nella mia veste di difensore dei familiari di Beppe Alfano.
Il contesto nel quale l’esistenza di quell’arma fu conosciuta dal pm Canali trovò culmine in una inspiegabile riunione che l’allora colonnello Mario Mori (al tempo vicecomandante del Ros) annotò fra i suoi impegni nella pagina di sabato 27 febbraio 1993, presenti anche il dr. Francesco Di Maggio (magistrato barcellonese-milanese che in quel momento rappresentava il governo all’agenzia antidroga dell’Onu a Vienna e quindi era fuori dal ruolo giudiziario), il dr. Olindo Canali e un rappresentante del Ros di Messina, il cui oggetto era oltremodo esplicito e altrettanto inspiegabile: «per omicidio giornalista di Barcellona P.d.G.».
Anche questo dimostra come porzioni del nucleo più occulto del biennio trattativista della storia d’Italia riguardino Barcellona Pozzo di Gotto e come il disvelamento completo della verità sull’omicidio di Beppe Alfano sarebbe necessario per fare luce sul “golpe” che portò alla nascita della “Seconda Repubblica” su uno spartito che potremmo chiamare anche “Falange Armata”.
Naturalmente, nessuno si sorprenda se fin dall’immediatezza nelle indagini sull’omicidio Alfano la “Falange Armata” fece capolino, rimanendo debitamente occultata, segno che forse chi doveva intendere aveva inteso.
Di certo, l’omicidio di Beppe Alfano fu un crimine di altissimo livello e almeno in parte un delitto di Stato.
Per questo, il ricordo di quell’eroico giornalista, a ventinove anni dal suo assassinio, è anche una sollecitazione alle istituzioni perché venga fatta piena verità e vengano definitivamente dissipate le scorie di uno dei più gravi depistaggi della storia repubblicana.

Tratto da: stampalibera.it

Foto © Paolo Bassani

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