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Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa…

La frase, coniata per l’Araba fenice, poi applicata alla “fede degli amanti” e persino al Green pass, con un po’ di spregiudicatezza si potrebbe estendere alla riforma del processo penale. Nel senso che se ne sente parlare da sempre, ma con scarsi risultati. Persino dopo la riforma del 1989 che avrebbe dovuto essere “epocale” e invece ha risolto ben poco. Anzi ha scatenato un lungo “corpo a corpo” fra Parlamento e Corte costituzionale. Finché il Parlamento non ha preso il toro per le corna: imponendosi con una legge costituzionale del 1999 e con la legge ordinaria del 2001 sul giusto processo, così da modificare profondamente l’intero assetto del processo riformato nel 1989.
Troppo “giusto” però il nuovo processo non è riuscito a essere, e sono riprese polemiche feroci in un quadro di sfascio inarrestabile della giustizia. Ed eccoci di nuovo daccapo, con i progetti predisposti prima dal ministro Alfonso Bonafede e ora dalla ministra Marta Cartabia con l’apposita commissione presieduta da Giorgio Lattanzi.
Cartabia e Lattanzi sono stati presidenti della Corte costituzionale. Conoscono certamente il “corpo a corpo” di cui abbiamo detto, e quindi sanno bene quanto il potere politico sia suscettibile e non tolleri di essere contraddetto dai giudici, fossero pure quelli supremi della Consulta. È bene sottolinearlo perché il progetto Lattanzi (quanto meno allo stato degli atti) prevede una novità clamorosa: le linee guida sui criteri di priorità dell’esercizio dell’azione penale che dovrebbe tracciare il Parlamento (rectius, la maggioranza politica contingente). Vero è che sarebbero anche previste interlocuzioni con il Csm e che alla fine spetterebbe agli uffici giudiziari tradurre in cifra operativa gli indirizzi della politica, ma il precedente del “corpo a corpo” è inquietante.
Tanto da autorizzare alcuni dubbi. Cosa accadrebbe se la magistratura (Csm e singoli uffici) non si uniformasse ai dettami della politica perinde ac cadaver, come i gesuiti sono tenuti a fare col Papa? Ci sarebbe un rischio per l’effettività dell’indipendenza della magistratura?
Interrogativi legittimi, se si pensa che quello delle direttive politiche per la trattazione prioritaria di alcuni temi escludendone altri è stato un chiodo fisso di una certa politica, in particolare ai tempi di Berlusconi. Oggi qualcuno potrebbe approfittare della crisi catastrofica della magistratura non per arginarla davvero, ma per realizzare il vecchio disegno (sogno?) di regolare definitivamente i conti con una magistratura troppo molesta in quanto troppo indipendente. Indubbiamente Cartabia e Lattanzi sapranno come tener conto anche di questo profilo, senza che occorrano segnalazioni altrui. Ma la posta in gioco è troppo alta per non rischiare di essere persino petulanti.
Per esempio provando a fare un esempio concreto, se si vuole ai limiti del paradosso, ma utile per intendersi. Supponiamo che la maggioranza politica del Parlamento un bel giorno decida di indirizzare le priorità nel senso di posporre a tutti gli altri (in sostanza non farli più) i processi per concorso esterno in associazione mafiosa - che tanto infastidiscono certi galantuomini - argomentando magari sul fatto che sono troppo lunghi per la loro obiettiva complessità. Csm e magistrati che osassero dissentire dovrebbero prepararsi a subire ondate furibonde di recriminazioni e attacchi da parte della politica, che parlerebbe a tutto spiano di attentato al suo primato, invasione di campo, golpe giudiziario ecc. Ne vale la pena, oppure è roba che fa a pugni con il principio della separazione dei poteri, tanto poco amato (absit iniuria…) da un certo Orbán?

Tratto da: Il Fatto Quotidiano dell'8 Luglio 2021

Foto © Imagoeconomica

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