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A distanza di 29 anni dalla sua morte, il caso Amara riapre il dibattito sui conflitti dentro il Csm

Corvi, dossier, soffiate i mali eterni della giustizia e la memoria di Falcone

Del giudice Giovanni Falcone portiamo, scolpita nel cuore e nella memoria, un'immagine indelebile di tre anni precedente alla sua tragica sorte. Era il giugno del 1989 e Cosa nostra aveva appena tentato di liberarsi del più irriducibile ed efficiente dei magistrati antimafia. Gli artificieri dei boss avevano affidato a 75 candelotti di esplosivo, lasciati sulla scogliera della casa al mare dell'Addaura, le speranze di potersi liberare del magistrato che, fino a quel momento, era stato l'ostacolo insormontabile al tentativo di rinascita di una Cosa nostra seriamente messa in crisi e minata al proprio interno dal virus del pentitismo abilmente inoculato da Falcone attraverso il suo "patto" con Tommaso Buscetta.

L'attentato fallito
Falcone, quel 22 giugno, il giorno seguente all'attentato fallito, sembrava un animale in gabbia, andava su e giù in continuazione alla ricerca di un filo che gli potesse offrire una chiave interpretativa di ciò che gli si stava muovendo attorno. Recriminava contro quelli che si erano già affrettati a sentenziare che quello non era un vero attentato (perché «la mafia non sbaglia mai» ) e aprivano la strada alle maldicenze che avrebbero insinuato il dubbio che quel tritolo «se l'era messo lui» a fini di carriera. Chi disse e scrisse tali infamie evidentemente non aveva avuto modo di vederlo, quel Falcone spaventato. Dormiva per terra, su un materasso "francescano" proprio per poter stare scomodo e quindi con le difese ben attive. E, per la prima volta, si fece vedere con un revolver in mano. Già, perché in quel momento Falcone aveva avuto la percezione netta che «tutto era cambiato» ed era entrato «nel gioco grande». Laddove per «gioco grande» era da intendersi la «saldatura» fra piani criminali, politici e grandi affari internazionali protetti anche da interessi governativi. Si lasciò sfuggire persino un riferimento, prontamente rientrato, sull'imprudenza che lo aveva spinto ad accettare un colloquio privato con l'allora presidente Usa, George Bush sr. Per non parlare della ormai famosa annotazione sulle «menti raffinatissime» che stavano dietro ai suoi nemici con la coppola.

Le battaglie nel Csm
Sono passati più di trent'anni da allora, dalle battaglie che Falcone (e il pool antimafia) aveva dovuto affrontare al semplice scopo di poter espletare la sua funzione di giudice indipendente. Battaglie che lo avevano visto impattare non solo sulle organizzazioni criminali, ma anche su pezzi di istituzioni, anche interne alla stessa magistratura. Battaglie avversate da interessi capaci di schierare sul terreno la forza della politica, dei ministeri e persino della cultura. In questo lungo braccio di ferro fummo spettatori di uno sconcertante intreccio, spesso incomprensibile per i ruoli invertiti, assunti da protagonisti e comparse, che mischiavano le carte a favore della confusione. Qualcosa di molto simile al "teatrino" cui stiamo assistendo, a tanti anni di distanza, nelle recenti vicende che si dipanano dal palcoscenico del Consiglio superiore della Magistratura. Cambiano i personaggi, ma il sistema sembra sempre quello e persino ripetitivi appaiono i fatti e misfatti che vanno in scena. Certo, allora non c'erano i trojan, né le intercettazioni, ma c'erano le lettere anonime, i dossier, le soffiate ai giornali, le false notizie. Ci furono le lettere del Corvo contro Falcone e il pool, le accuse false sull'uso improprio e criminale dei pentiti addirittura, secondo l'anonimo, usati "politicamente" e lasciati liberi di poter fare giustizia privata nei confronti dei loro nemici. E, come adesso, si infiammava il dibattito sulla magistratura «troppo indipendente», sull'uso politico delle indagini e sulla «necessità di riformare» sia la giustizia (magari assoggettando la magistratura all'Esecutivo) che l'Organo di autogoverno dei giudici. Sono passati tre decenni, sono accadute cose impensabili, sono cadute la prima e la seconda Repubblica, ma il Consiglio superiore è rimasto lo stesso ammalato di collateralismo, che ha regolato incarichi e carriere dei magistrati in una consultazione costante con le forze politiche per legge rappresentate al proprio interno.

Le sconfitte
Giovanni Falcone a lungo andare la sua guerra la perse. Prima politicamente perché costretto a lasciare Palermo ed alcune inchieste che, in mano sua, avrebbero assunto ben altri sviluppi, per esempio l'inchiesta sugli omicidi politici (Mattarella, La Torre, Reina, Insalaco e Dalla Chiesa). Ma la sconfitta definitiva gli sarebbe arrivata coi 450 chili di tritolo di Capaci, il 23 maggio del 1992, fatti esplodere da Cosa nostra, ma col tacito consenso di «interessi alti» che quel giudice non lo avevano mai sopportato, ritenendolo un serio impedimento alla scelta del «quieto vivere» e alla tutela del mantenimento di quei privilegi acquisiti da politici, affaristi, imprenditori di bocca buona e faccendieri del tutto simili a quel Piero Amara che oggi occupa le prime pagine.
E furono le stragi mafiose e l'esplosione della Tangentopoli milanese (la presa d'atto di una corruzione, politica e imprenditoriale, diffusa e incontrollabile) a rimettere il coperchio e il silenziatore sulla "malattia" della giustizia e del Csm. Le inchieste dei pool (Milano e Palermo) fecero esplodere un'intera classe politica. Un Parlamento falcidiato e depotenziato da arresti e avvisi di garanzia non trovò di meglio che assegnare una delega salvifica alla magistratura. Tranne, poi, ricorrere ad un ritiro unilaterale di quella delega che, inevitabilmente, avrebbe riacceso l'eterno conflitto fra politica e giudici.

L'eredità
Al di là di quanto sta accadendo ancora oggi, al di là del perpetuarsi di un sistema che certamente andrebbe rivisto e riformato (ma senza cedimenti a cogliere l'opportunità per riassegnare impunità politiche), a noi resta l'eredità lasciataci da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e da tutti i martiri che hanno sacrificato le loro vite per vincere una battaglia che è anche di libertà e di democrazia. E non è soltanto un lascito di valori etici e di civiltà, ma anche di strumenti pratici per rendere più efficace la lotta alla corruzione, al terrorismo e alle organizzazioni mafiose.
Si tratta di un patrimonio (soprattutto la legislazione antimafia) che ci invidia tutto il mondo occidentale e che, ancora oggi, viene copiato da Paesi molto avanzati. Un patrimonio che va salvaguardato e difeso soprattutto dai tentativi periodicamente messi in atto da lobby di incerta natura. Assistiamo al fiorire di collaboratori dell'ultima ora che spargono rivelazioni e illazioni buone solo a mettere in discussione sentenze e processi già passati in giudicato. Mezzi pentiti, fuori dal programma di protezione, che declamano tranquillamente a favore di telecamere senza nessuna cautela per la propria incolumità, addirittura testimoni che parlano per conto di ergastolani non rassegnati alle condanne riportate nel corso di regolari processi.

La riforma dell'ergastolo
In questo marasma, infine, si innesta un tema, delicato e concreto, destinato a far discutere parecchio nei prossimi mesi. Stiamo parlando dell'ergastolo ostativo e della conseguente presa di posizione della Corte Costituzionale a proposito del «fine pena mai» e del reale problema legato al diritto di usufruire di agevolazioni carcerarie anche per i mafiosi e per quelli che non accettano il richiamo alla collaborazione con lo Stato. La Corte ha posto sul tappeto il problema ma, consapevole della complessità dell'argomento, ha anche dato un tempo (un anno) al Parlamento per fare una legge sull'ergastolo ostativo che garantisca costituzionalmente il trattamento uniforme per tutti i detenuti, ma senza interferire in negativo sulla necessità di mantenere alto il contrasto alle mafie. E senza trascurare il fatto che tra le aspettative di Cosa nostra c'è sempre stata l'abolizione dell'ergastolo e una carcerazione "accettabile". Un boss che sa di poter tornare libero è un capo che può continuare a decidere della vita e della morte di altri uomini. Un capomafia all'ergastolo è come un "presidente onorario", rispettato, ma non abilitato a decidere. Ce lo ha insegnato Giovanni Falcone.

Tratto da: La Stampa

Foto © Imagoeconomica

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