Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di Stefania Limiti
Pronto, Dick Martin?”, “yes, who is speaking?”, “sono una giornalista italiana, buongiorno procuratore, vorrei chiederle una cosa a proposito del suo amico Giovanni Falcone”. Martin è stato uno dei pubblici ministeri della famigerata indagine Pizza Connection, faceva continuamente la spola con il nostro Paese e conosceva bene Falcone: “per caso ricorda qualcosa dell’ultimo viaggio del magistrato italiano negli States, qualche settimana prima della strage?”.
Chiamai Martin qualche mese fa sapendo che c’era poco da aspettarsi da quella telefonata, se non il piacere di gustare la sua sorpresa: <<ma come ha fatto a trovarmi?>>, <<le assicuro che le interesserebbe saperlo... >>. Secondo gli appunti trascritti nella sua agenda, Falcone si recò negli Stati Uniti negli ultimi giorni di aprile ma di questo suo spostamento non ci sono prove certe. In un primo momento l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli confermò, poi disse di no. L’altro procuratore americano molto vicino a Falcone, Charles Rose, disse di sì, che Falcone era andato, che si erano anche incontrati, poi cambiò all’improvviso versione senza spiegare perché. Anche Martin all’inizio disse di sì poi ora dice di no. Non possono essere tutti pazzi ma la storia (affrontata in un capitolo di libro I diari di Falcone di Edo Montolli, Chiarelettere) resta senza spiegazione sebbene sia resa ancor più interessante, se possibile, dal coriaceo rifiuto da parte delle autorità (Ilda Boccassini) di verificare una volta per tutte la faccenda attraverso una indagine sulle carte di credito di Falcone: motivo, violazione della privacy. Motivo che non ha impedito (sarebbe stato davvero assurdo) le analisi sul cellulare: solo che Falcone possedeva un vecchio tipo Etacs, piuttosto diffuso al tempo, un telefono operativo solo sul territorio nazionale. Quel vecchio arnese non può rivelare nulla sugli eventuali movimenti del magistrato in altri Paesi. Ma il senso di quel viaggio potrebbe ricadere come piombo sulla morte del magistrato siciliano. In America viveva Tommaso Buscetta, che Falcone aveva interrogato l’unica volta nel 1988, il super pentito a cui, lontano dall’Italia e dai corleonesi, gli avevano ammazzato mezza famiglia e che previde - parlando con il magistrato Leonardo Guarnotta che lo andò a trovare in Canada dopo le stragi del ’92 - gli attentati ai monumenti: era uno che sapeva moltissimo. C’era pure Tano Badalamenti negli Usa, ospite dal sistema carcerario. Non può restare senza risposta quella faccenda del viaggio, a meno che non si voglia navigare nelle acque “rassicuranti” - avrebbe detto Sciascia - del telecomando in mano a Brusca. C’è anche quel consistente accenno (lo so, è un ossimoro, ma questa storia è lastricata di contraddizioni) raccontato da Francesco La Licata, grande giornalista che conosceva bene Falcone: dice di avere un cruccio, <<non essere riuscito a farmi spiegare il senso di una frase sfuggitagli all'indomani dell'Addaura. Mi disse: "Non ci dovevo andare. Io ho sbagliato ad andarci". Ma dove sei andato? "Non dovevo accettare l’invito ad andare all'Ambasciata americana, a Roma. In quella sede ho avuto un incontro privato col presidente George Bush". Inutile ogni tentativo di fargli aggiungere spiegazioni. Si infastidì per avermi detto quella frase e chiuse così: "Lo so io perché ho sbagliato">>. Non sapremo mai cosa intendesse, ovviamente. Possiamo solo fare nostro il cruccio di La Licata, ma anche la consapevolezza che il confine della strage di Capaci è largo, larghissimo, e non è neanche intravisto dai pentiti mafiosi dai quali sappiamo un pezzetto di verità.
Ha ragione l’allora commissario Gioacchino Genchi a battere su questo tasto dell’affaire Capaci, visto che il viaggio negli Usa di Falcone è rimasto uno dei ‘muri’ attorno ai quali è nascosta la verità sulla strage.
Come la storia del furgone bianco visto un giorno prima della strage dall’ingegner Francesco Naselli Flores (ben ricostruita dal giornalista Walter Molino): una testimonianza solida, credibile, equilibrata e immediata. Perché è stata buttata alle ortiche dall’imperizia degli investigatori? Infatti, Naselli riconobbe Mario Santo Di Matteo tra gli uomini notati lungo la scarpata sottostante alla strada, lì dove era stato allestito il cunicolo della morte. Naturalmente lo denunciò, ma nessuno si prese cura di quella testimonianza potenzialmente poderosa. Venne pure manomesso l’identikit ricostruito sulla base del racconto di Naselli Flòres. Roba da pazzi. Eppure al tempo gli investigatori tennero a dire che c’erano state segnalazioni da parte di tanti cittadini e che tutte erano state passate al setaccio: a capo della task force fu messo subito l'allora capo della 'Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che anticipò con involontaria ironia argomenti futuri che lo avrebbero coinvolto personalmente: <<tante segnalazioni - disse - hanno fornito spunti d'indagine molto interessanti, mentre altre sono apparse palesemente false e depistanti>>. Quelle ombre lungo l’autostrada sono state abbandonate, diventando un altro muro.

falcone giovanni c shobha

E quello dei reperti trovati sul ‘cratere’ dell’esplosione? Guanti in lattice, una torcia, batterie, una lampadina, un tubetto di mastice marca “Arexons”, oggetti di cui i pentiti non hanno mai detto nulla. L’esame genetico non trova tracce del Dna dei killer - allora chi altri c’era? - e identifica una sequenza femminile: <<Dai campioni che ci hanno fatto vedere dopo 12 anni - disse nel Tribunale di Caltanissetta, durante il processo “Capaci bis”, il perito genetista dell'Università di Bari Nicoletta Resta - c'è qualche traccia dalla quale non si può escludere che ci possa essere stata anche una donna sul luogo della strage>>. Sì, tutto complicato dopo così tanti anni, il quesito sulla riconducibilità delle impronte appare di difficile soluzione: come attribuire con certezza le tracce di Dna ritrovate? Su quale campione umano provare a rintracciarle? È vero, ma resta un punto fermo: i pentiti non hanno raccontato tutto o non sanno tutto. Perché non ammettere, dunque, quelle prove nel fascicolo processuale al “Capaci bis”, degradandole a inutili reperti? Forse perché in quell’aula di giustizia si decise di mandare in scena solo una parte della rappresentazione, quella dove agiscono i mafiosi: gli altri fuori di lì.
Ormai è piuttosto noto, e piuttosto lungo, l’elenco dei punti non sviluppati dalla ricostruzione ufficiale - le quali, in una breve panoramica: partono dalle intercettazioni a carico di Antonino Gioè, che accennava ad un ''attentatuni'' (grande attentato), passano per l'acquisizione del Dna di due killer, ricavato dall'esame dei mozziconi di sigarette trovati sulla collinetta dove l'artificiere inviò l'impulso radio per l'innesco dell'esplosivo, arrivano ad inchiodare Gioacchino La Barbera ed Antonino Gioè, quest'ultimo ammazzato in carcere (ufficialmente suicida), il primo vuota il sacco dopo che un altro degli esecutori materiali della strage, Santo Di Matteo, lo aveva preceduto nella decisione di pentirsi; alle loro dichiarazioni si aggiunsero quelle del boss Salvatore Cancemi, che, sentita l’aria, si consegnò ai Carabinieri nel luglio del ‘93, luogo del quale era quasi un abituale frequentatore in qualità di informatore; la ricostruzione dei tre collaboranti trovò riscontri e l' 11 novembre del '93, a poco più di un anno dalla strage, furono emessi gli ordini di custodia cautelare; furono poi individuati nel settembre dell’anno successivo altri componenti della Commissione Regionale di Cosa Nostra fino ai picciotti inchiodati dalle recenti indagini confluite nel processo Capaci bis.
Alle annuali commemorazioni sarebbe ormai adeguata alle circostanze l’ammissione pubblica, ancorché imbarazzante, che mezza verità è saltata: conosciamo il contributo mafioso alla strage, i dettagli delle dichiarazioni dei pentiti, ma manca un pezzo.
La storia della corresponsabilità tra Cosa nostra ed altri entità esterne non nasce di recente. Anzi, nasce subito. In un famoso e molto citato Rapporto, la Direzione Investigativa Antimafia lo mise nero su bianco il 10 agosto del 1993. A rileggerlo viene da pensare: avevano capito tutto e vollero mettere le mani avanti senza poter dire altro? Non si comprende come quella premessa investigativa non abbia poi avuto mai sviluppi di alcun genere, anzi. È stata affossata dai depistaggi. La DIA scriveva così: <<Già subito dopo la strage di via D’Amelio [avevamo] prospettato l’ipotesi che Cosa nostra fosse divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato. Progetto inteso non già come programma definito nei particolari, bensì come disegno di massima da sviluppare nel tempo, valutando attentamente l’impatto di ciascun passaggio all’interno dell’organizzazione e sull’opinione pubblica nonché la probabilità di effetti di ritorno dannosi>>. Parole impegnative da parte di una delle massime autorità d’inchiesta che parlò di <<strategia dai contorni indefiniti ma chiaramente proiettata verso uno scontro frontale e violento con le istituzioni>>. Ci hanno ripensato? Qualcuno impedì il dispiegamento delle indagini? Gli scenari possibili sulle responsabilità della strage di Capaci furono di certo sepolti dentro una furia “mafiocentrica” che cancellò con un colpo di spugna indizi, piste, scenari e ricerche di prove. Per la strage del luglio venne vestito il pupo, Scarantino, per quelle seguenti venne messo in un bel cassetto tutto ciò che non si poteva spiegare con le dichiarazioni dei pentiti con il risultato di aver pescato solo pesci piccoli. Per la strage di Milano l’unico esecutore, Marcello Tutino, è stato poi assolto in due gradi di giudizio. Insomma, un quadro assai incerto.
Perché i muri si possono anche alzare ma è poi impossibile evitare qualche squarcio qui o lì attraverso il quale vedere oltre.
La scena del crimine della strage del maggio ‘92 fornisce elementi importanti e non eludibili: certo, si possono ignorare, con tutte le conseguenze in termini di responsabilità etica verso la verità, e qui non parliamo di giustizia penale ma di affidabilità del senso storico degli eventi.
Quella operazione aprì una nuova stagione nella storia degli attentati mafiosi per quantità di esplosivo e più in generale per tipologia di attentato. Secondo gli esperti Francesco Saverio Romolo e Gianni Vadalà - esperto di chimica forense il primo, tra i primi chimici dei Servizi polizia scientifica il secondo, entrambi collaboratori di numerose DDA e in particolare con Gabriele Chelazzi per le stragi sul “Continente” - quell’attentato rappresenta un salto di qualità importante nelle tecniche del terrorismo, e non ha eguali fino ad allora, è un unicum nella storia del crimine che ha un solo precedente simile, ma certamente meno complesso nell’ideazione ed esecuzione: l’attentato a Carrero Blanco a Madrid realizzato dall’Eta. Interessante una visione d’insieme: il dottor Vadalà, che ha snocciolato i dati delle stragi del ‘93 per lungo tempo insieme al procuratore Chelazzi, afferma questo: << In via dei Georgofili a Firenze è stato utilizzato un furgone Fiat Fiorino con circa 240 kg di esplosivo e un booster attivato sempre da miccia a lenta combustione, quattro pacchi di esplosivo ciascuno da circa 60 kg. In via Fauro l’auto doveva esplodere il 13 maggio ma il dispositivo non funziona. Gli attentatori rimuovono l’auto contenente l’ordigno innescato (due pacchi di esplosivo da 60 kg e booster), la riportano nel garage e risistemano tutto, occupando il parcheggio con un’altra autovettura. Il giorno successivo (il 14 maggio) la parcheggiano nuovamente nella stessa posizione del giorno precedente ma l’obiettivo, Maurizio Costanzo, aveva cambiato autista e vettura, così l’incertezza nel riconoscerlo provoca un ritardo nell’attivazione dell’ordigno (mediante il telecomando). Un ritardo che gli salvò la vita. A Roma (nei pressi di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano) e a Milano (in via Palestro) sono stati utilizzati miccia a lenta combustione, due pacchi ciascuno da circa 60 kg e un booster. Allo stadio Olimpico di Roma si volevano colpire i carabinieri in servizio e si è utilizzato nuovamente un radiocomando per attivare un booster e tre pacchi ciascuno da 60 kg di esplosivo. L’attentato è fallito e due di questi pacchi furono ritrovati a Capena, vicino Roma. Anche a Formello nei pressi di Roma, nel fallito attentato a Totuccio Contorno, è stato utilizzato un radiocomando, di cui sono state trovate le batterie. Per decisione degli organizzatori furono portati dalla Sicilia esplosivi diversi da quelli utilizzati in precedenza per depistare le indagini>>. Insomma, la conclusione è che quando i mafiosi hanno usato le micce contro bersagli statici, tutto ha funzionato. Venivano accese dopo aver avvolto alle estremità un batuffolo di ovatta imbevuto con la benzina dello Zippo. Con i radiocomandi, indispensabili quando c’è un bersaglio mobile che deve essere colpito in un preciso momento, c’è sempre stato qualche problema. Tranne che a Capaci?
Proprio lì, dove Giovanni Brusca viene mandato all’ultimo momento, perché l’artificiere Pietro Rampulla aveva un “impegno di famiglia” - che vi piaccia o meno questa falsità è ancora la spiegazione ufficiale - il macellaio del crimine, senza nessuna preparazione tecnica, riesce a azzeccare la tecnica del telecomando. È una versione tanto fragile del racconto. E poi c’è la sempre troppo poco citata perizia voluta dall’FBI: i super tecnici presero un pezzo di cemento, lo analizzarono e dissero testualmente, in una relazione del 30 giugno 1992: <<le nostre analisi hanno identificato la presenza di Pentrite e RDX. Questi materiali esplosivi si trovano nel Semtex>>. Ma il Semtex, micidiale composto prodotto in Cecoslovacchia, venduto ovunque dai trafficanti che andavano su e giù per l’Europa, non risulta dalle analisi nostrane. Lì ci sono solo Tritolo e Anfo, i due composti portati dai mafiosi come risulta dai racconti dei pentiti. Che ne è stata di quella perizia? Tra gli inquirenti c’è qualcuno che si è mai preoccupato di ‘incastrarla’ nella ricostruzione della strage? Eppure il contributo americano - completamente comprensibile che le autorità avessero chiedesse un sostegno tecnico all’inchiesta - non fu taciuto. Al contrario, nella conferenza stampa che il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra tenne il 12 novembre del 1993 per sfoderare i risultati delle indagini nate dalle dichiarazioni del boss della famiglia di Altofonte Santo Mario Di Matteo - Santino “Mezzanasca” svelò l'organigramma del commando - erano presenti i rappresentanti di Ros, Dia e Polizia, insieme a due esperti americani che avevano collaborato alle indagini. Tinebra ringraziò esplicitamente i colleghi statunitensi parte di un gruppo più numeroso di tecnici. Quel giorno troneggiava di fronte ai giornalisti il Questore Arnaldo la Barbera, responsabile del gruppo di lavoro della polizia che indagava sulle stragi di Capaci e di via d'Amelio: tanto tempo doveva ancora passare prima di scoprire la sua mania di depistatore seriale.
La Barbera si era legato ormai mani e piedi al Servizio segreto civile, l’allora intelligence interna sul cui operato in quel periodo pesano pesantissime ombre. Aveva finanche un nome in codice, fonte Catullo, e veniva regolarmente pagato. Un comportamento davvero infame che rende il suo operato, a lungo elevato a quello di insostituibile cacciatore di verità, un prodotto altamente tossico di un disegno che non conosciamo nel suo insieme. C’è il suo zampino nella manina che il Sisde mette nelle indagini sulla strage di Capaci? Chi può saperlo! Di sicuro c’è che il 25 maggio, due giorni dopo l’esplosione lungo l’autostrada, il Sisde inviò personale per “il prelievo di materiale roccioso da sottoporre a successivo esame chimico-esplosivistico”. Era noto che uomini del Servizio si precipitarono sul luogo - di per se nulla di strano, in fin dei conti: il giorno dopo quella missione la Polizia scientifica ritrovò il famigerato bigliettino con un appunto criptico: “Guasto n-2 portare assistenza. 0337806133 G.U.S., Via in Selci, 26 Roma. Via Pacinotti”. Un appunto che fa riferimento a luoghi e sigle del Sisde e che riporta interamente il numero telefonico intestato alla G.U.S., società di copertura del Sisde, e nella disponibilità di Lorenzo Narracci, allora vice capo del Centro Sisde di Palermo dal 2 dicembre 1991 alla fine del 1992, risultato completamente estraneo alle indagini. La notizia della perizia si apprende da un interrogatorio reso alla Procura di Caltanissetta il 27 ottobre del 2010 dallo stesso Narracci, classe 1955, già capo-nucleo della Sip a Roma durante il rapimento Moro (così in "Il Giornale di Sicilia" del 24 maggio 1997), investigatore navigato. Quella incursione delle barbe finte sulla scena del crimine destò <<sospetti>>: disse proprio così Narracci, al punto che l’Autorità giudiziaria (Ilda Boccassini) lo convocò: <<Ricordo che fui costretto a relazionare nel dettaglio [ … ] poiché la circostanza del prelievo era giunta alla cognizione dell'AG. Al riguardo, ricordo che il Generale Chizzoni, vice direttore pro tempore del Nucleo Tecnico Scientifico, inviò dei tecnici immediatamente dopo la strage di Capaci, per effettuare un sopralluogo. […] Preciso che 1'invio di tali tecnici lo "subimmo" unitamente al Capo centro, Ruggeri, e che in merito all'attività non fummo mai messi al corrente dei motivi e dei risultati. Tuttavia, alla luce dell'inusuale prelievo dei campioni sul luogo della strage, sono stato convocato d'urgenza a Roma per relazionare nel dettaglio in ordine alle richieste della D.ssa Boccassini>>.
Ma perché il Sisde realizzò una perizia esplosivistica definita inusuale da uno dei suoi più altri dirigenti? Quale autorità lo delegò? (non l’autorità giudiziaria - abbiamo interpellato anche l’allora Pm Luca Tescaroli che naturalmente è all’oscuro della faccenda). Ed infine: quella anomala richiesta di collaborazione rivolta dal procuratore di Caltanissetta Tinebra all’allora Servizio segreto civile, nel quale spiccava all’epoca la figura del poliziotto Bruno Contrada, va ricollocata nel tempo. Non subito dopo la strage di via d’Amelio, ma già nell’immediatezza del 23 maggio 1992.
Si profila dunque un ruolo sempre più pervasivo dell’intelligence dentro fatti che non hanno trovato una loro credibile e definitiva spiegazione se non nel livello operativo. Ma per cogliere il senso di una strage - il più politico degli atti criminali - occorre capire chi la ha architettata, altrimenti resta in sospeso la storia. Come appunto è avvenuto per l’attentato che insanguinò quel tratto di autostrada e inaugurò la cosiddetta Seconda Repubblica.
(18 agosto 2020)

Foto © Shobha

ARTICOLI CORRELATI

Strage di Capaci, Stefania Limiti: ''Non solo mafia, operarono altri apparati''

Strage Capaci, rinvenute tracce di Dna di una donna

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos