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di Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia
L’Araba Fenice è un favoloso uccello: rinasce, mentre sembra stia morendo nel fuoco, da un uovo generato dalle sue stesse ceneri. Una favola che ricorda le sequenze del caso Contrada.
A beneficio dei disinformati, si rammenta che Bruno Contrada, un alto funzionario di polizia, è stato condannato in ragione di numerosi gravi fatti di costante supporto a Cosa Nostra e di molteplici specifici favori a boss di assoluto rilievo. Fatti accertati con prove granitiche: pentiti, ma anche documenti, intercettazioni e tantissimi testimoni (fra cui Caponnetto, “padre” del Pool antimafia, e il giudice svizzero Del Ponte, insieme a poliziotti, carabinieri e vedove di mafia).
Nel 2007, Contrada è condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (artt.110 e 416 bis Cp). Ma dopo questa definitiva pronunzia si ricomincia, con cadenze che ricordano appunto l’Araba Fenice. E la Corte d’appello di Palermo (aprile 2020) arriva a liquidare a Contrada la cospicua somma di 667 mila euro per ingiusta detenzione.
Tutto nasce da un ricorso alla Cedu (Corte europea dei Diritti dell’uomo) e da una sua sentenza del 2015 che non pone minimamente in discussione i fatti e la ricostruzione dei giudici italiani, e tuttavia condanna lo Stato italiano a risarcire un danno in base all’assunto che Contrada non poteva essere condannato.
Perché? Per il paradossale ragionamento che secondo la Cedu il reato di concorso esterno in associazione mafiosa nasce soltanto nel 1994, in virtù di una sentenza della Cassazione (Demitry) che lo avrebbe meglio definito dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali. Perciò sarebbe, sempre secondo la Cedu, un reato di origine giurisprudenziale. E poiché le gravi condotte di Contrada (realizzate dagli anni Settanta al 1992) sono anteriori, egli non poteva sapere che erano illecite e nel contempo esse non erano ancora riconducibili al reato di concorso esterno.
Questo ragionamento è fragile per tutta una serie di motivi.
A parte l’assurdità di un poliziotto del livello di Contrada, che non poteva percepire l’illiceità delle sue condotte, la Cedu cade in un grosso equivoco. La tesi di un reato che sarebbe stato creato ex novo nel 1994 dall’interpretazione giurisprudenziale, si infrange contro la logica. La quale insegna che la giurisprudenza può intervenire soltanto se preesistono reati già codificati. Altrimenti, per usare un’espressione volgare, non c’è trippa per gatti. La verità è che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa esiste nel nostro codice penale da molto tempo, in forza di due articoli che paradossalmente cita la stessa Cedu (p. 4) come pertinenti al caso, il 110 e il 416 bis Cp.
Il 110 stabilisce la “pena per coloro che concorrono nel reato” ed è norma di carattere generale, presente nel codice fin dalla sua emanazione (1930). Per cui il concorso esterno non è altro che la combinazione del 110 con l’articolo del codice che, di volta in volta, punisce questo o quel reato specifico. Per la mafia è il 416 bis, inserito nel codice nel 1982 (dopo l’omicidio di dalla Chiesa), che si è aggiunto al 416 (associazione a delinquere) da sempre nel codice.
In altre parole, il concorso esterno in associazione mafiosa scaturisce dalla combinazione di norme del codice operative ben prima che Contrada ponesse in essere le sue condotte e ben prima della sentenza Demitry cui si aggancia la Cedu per un’improponibile origine giurisprudenziale.
Che è poi ciò che affermano in modo inequivocabile sia la nostra Corte costituzionale (poco dopo la Cedu, nel 2015) sia la Cassazione nel 2016, smentendo i giudici di Strasburgo.
La Cedu, poi, scivola quando ignora del tutto come il concorso esterno compaia addirittura in sentenze della Cassazione di Palermo del 1875, per essere ripreso in molti casi successivi fino al “maxi ter” di Falcone e Borsellino (1987). In ogni caso, la sussistenza dei fatti rilevati a carico di Contrada non è stata mai scalfita. Né dalla Cedu né dai giudici (di Caltanissetta e della Cassazione, di recente anche le Sezioni Unite) che dopo la Cedu si sono occupati di Contrada, rigettando ogni tentativo di ridiscuterne la condanna.
Ciò vale anche per la Corte di Palermo, che ha deciso il risarcimento, ma nel contempo ha escluso l’applicabilità dell’art. 643 cpp (riparazione dell’errore giudiziario), ricordando anche che la Cassazione ha respinto in via definitiva un ricorso per la revisione del giudicato penale di condanna. E che arriva addirittura a citare - par. 5.2, p. 27 - la testimonianza di Gilda Zino, vedova dell’ing. Roberto Parisi, secondo cui “il dott. Contrada mi disse, con fermezza, che qualunque cosa io potessi sapere che riguardava la morte di Roberto dovevo stare zitta, non parlarne con nessuno e ricordarmi che avevo una figlia piccola… mi disse solo queste testuali parole”.
Dunque, l’Araba Fenice nasce dalla Cedu e da una sua applicazione a fini risarcitori che qui registriamo.
Qui interessa soprattutto: ribadire che i fatti sono stati tutti e sempre confermati da chi li ha analizzati; smentire coloro che - contro la verità - parlano di un “secondo caso Tortora”, di ”smacco” e “frana della tesi accusatoria” della Procura di Palermo; evidenziare l’ennesimo attacco livoroso a quella Procura che in certi anni ebbe il torto di applicare la legge (vigente!) a tutti, senza accomodamenti per gli uomini infedeli degli apparati statali. Perché la mafia è una cosa seria e va affrontata in modo serio: non è una favola come l’Araba Fenice.
Da ultimo, alcuni interrogativi. La condanna di Contrada resta e si fonda sulla prova provata di fatti gravi: agevolazione della latitanza di vari boss, tra cui Riina; provvidenziali “soffiate” su indagini in corso; interventi per il rilascio abusivo di patenti e porto d’armi; ripetuti incontri con mafiosi.
Ciò posto, è proponibile la domanda se sia giusto oltre ogni dubbio gratificare il responsabile di quei fatti con una barca di soldi? Non significa (al di là delle intenzioni) svuotare la mafia della sua terribile pericolosità, che si nutre proprio di relazioni esterne?
E ancora: se la fonte di tutto è una sentenza Cedu nata da un fraintendimento interpretativo, deve proprio la giustizia italiana prestarvi comunque pedissequo ossequio? Oppure, viste le tante illogicità e stranezze che accostano la vicenda giudiziaria alla favola dell’Araba Fenice, ci sono spazi per rivolgersi alla Corte costituzionale (la stessa che ha smentito quel fraintendimento) per verificare se sia rispettato il criterio di ragionevolezza che molte sue decisioni si preoccupano di testare?

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Foto originali © Imagoeconomica

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