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di Marina La Farina
Pochi elementi scenici: un tavolino, due sedie, una poltrona, una finestra-schermo che accoglie immagini di altri corpi e luoghi; e il buio forato da una lama di luce che apre allo sguardo la schiena di un corpo di donna.
Si apre così il primo della sequenza di cancelli che porterà la sala verso quel novantanovesimo evocato dal titolo della pièce di Vincenza Tomaselli, autrice dello scritto originario, pubblicato nel 2017, e regista dello spettacolo messo in scena al Teatro Chaplin a Catania il 29 febbraio e l'1 marzo 2020.
Ed io, già lettrice del libro, mi sono recata al secondo degli spettacoli, domenica pomeriggio, animata, lo confesso, più dalla curiosità verso la resa di quel volumetto speciale, asciutto e traboccante di esperienze, che dalla performance in sé. Non mi aspettavo quello che ho trovato.
Sul palcoscenico si è materializzata l'incarnazione di quel verbo che la lettura aveva evocato. Annalisa Insardà ( in foto) presta il suo corpo ed esprime rabbia, sofferenza, noia, speranza, dolore, rinascita in una sequenza incalzante e mi ritrovo in attesa del passo successivo, del prossimo cancello, in religioso silenzio - come il resto del pubblico - stupefatta da quello che prende vita sul palco: un corpo femminile che libera la sua energia. In tutte le direzioni. Perchè, nell'arco del tempo dello spettacolo, la donna sul palcoscenico ha compiuto un viaggio, uno spostamento e mi ha portato con sé.
Novantanovesimo cancello è un'esperienza: mette in scena e accade. Mette in scena un individuo che avanza nella dolorosa presa di coscienza di se stesso. Un individuo che ha delle caratteristiche precise e non eludibili. È una femmina, prima bambina e poi donna, che si confronta con le tante contraddizioni e privazioni che contraddistingono la costruzione degli individui - maschi e femmine - nel nostro tempo.
Passa dalla repressione dell'energia vitale del sé bambina, alle molteplici occasioni che un essere femminile spesso affronta per ridursi alla conformità di genere e alle aspettative del mondo. Consapevole, precocissimamente, della mortificazione subìta e, all'inizio, vissuta come una colpa. Ma "lei" ha una fortissima alleata: la propria follia. Da questa sconsolante condizione riparte alla volta della profonda e piena conoscenza di sé e della propria liberazione. Ecco, in scena ho visto - per la prima volta - un corpo di donna, che gioca con "l'invisibile sedotta, rapita o mortalmente toccata", per dirla con Nicole Brossard, e ci mostra, sprofondando oltre il limite della lettura, la propria pelle biografica. Una voce incarnata che rompe con l'abitudine di tacere le nostre percezioni, le nostre intuizioni, le nostre certezze più vitali. Colei che prende forma sotto i nostri occhi non è una donna conforme a un modello facilmente catalogabile. Esprime la vitalità di una cultura al femminile "integrale", che va oltre la superficie, carica di un'energia vorticosa, a spirale, che occupa lo spazio, un volume.
La seguiamo nelle tappe - stazioni - del suo andare, del suo stare. Il viaggio avviene negli spazi e nelle strade angoscianti delle città che tutti noi attraversiamo, ma è una ricerca iniziatica, intrapresa con un ardore e una passione insolita: quella del corpo femminile risvegliato ed eccitato. Nel buio della sala ho sentito le tenebre rischiararsi, man mano che "lei" sulla scena procedeva nel suo cammino. Fino alla fine, a quel centesimo cancello. Che è solo un inizio.

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