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di Giacomo Salvini - Intervista
Giovanni Impastato, fratello di Peppino: “La prescrizione ha salvato chi sviò le indagini”

Un giorno a Brescia, l’indomani a Bari e poi il ritorno nella sua Palermo. Anzi no, ci tiene a precisare Giovanni Impastato, a Carini, per portare avanti la pizzeria di famiglia. Tutto in 48 ore. Le scuole lo chiamano, lui risponde sempre presente: “Da quando hanno ucciso mio fratello Peppino, ho deciso di portare avanti il suo messaggio ai più giovani che oggi ne hanno tanto bisogno: senza la legalità e la lotta alle ingiustizie, l’Italia non andrà mai avanti” spiega Impastato, appena uscito da un incontro all’istituto tecnico Primo Levi di Brescia. Tra queste ingiustizie c’è sicuramente la prescrizione, quella “maledetta” tagliola che ha impedito di individuare i carabinieri che hanno depistato le indagini dopo il ritrovamento del corpo di Peppino dando per certa la pista del “suicidio” o dell’attentato terroristico finito male.

Se gli esecutori dell’omicidio, il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e il mafioso Vito Palazzolo, sono stati assicurati alla giustizia nei primi anni Duemila, era stata la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Giuseppe Lumia a mettere in luce per la prima volta le responsabilità dei carabinieri e il presunto depistaggio nell’inchiesta sulla morte dell’attivista di Democrazia Proletaria tra il 7 e l’8 maggio 1978. Solo nel 2010 però i pm di Palermo Francesco Del Bene, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia aprono l’inchiesta: l’allora generale dei carabinieri Antonio Subranni (condannato a 12 anni nel processo Trattativa) è accusato di favoreggiamento mentre i tre sottufficiali che quella notte fecero le perquisizioni in casa Impastato - Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono - sono accusati di falso in concorso. Dopo otto anni, il giudice per le indagini preliminari di Palermo Walter Turturici archivia il caso per intervenuta prescrizione. Eppure, nel decreto di archiviazione, il gip descrivendo le indagini parla di “un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative” tra cui la mancata indagine sulla pietra sporca di sangue a pochi passi dalla ferrovia, l’esplosivo e quel foglietto (“Voglio abbandonare la politica e la vita”) trovato durante la perquisizione che secondo i carabinieri era la prova del suicidio. Secondo il giudice, inoltre, Subranni “aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa”. Ma è tutto prescritto.

Signor Impastato, secondo la giustizia italiana nessuno depistò le indagini sulla morte di suo fratello.
Esatto, la cosa è gravissima perché le prove del depistaggio ci sono sempre state e la Commissione antimafia le aveva già segnalate: qualcuno ha voluto depistare le indagini in maniera scientifica. È un reato gravissimo, mica come rubare caramelle al supermercato. E cosa succede? Non c’è alcun colpevole a causa della prescrizione. Io e mia moglie Felicia ci abbiamo rimesso tanto anche della nostra salute, ma per niente: la verità ci è stata negata per sempre.

I mandanti però ci sono.
Sì, Gaetano Badalamenti all’ergastolo e i suoi amici mafiosi si sono presi 30 anni, ma non sono mai finiti in galera perché tutti morti nelle guerre di mafia. Eppure, il depistaggio ha contribuito a ritardare le indagini: Peppino Impastato è stato colpito perché era un attivista di sinistra e si batteva tutti i giorni per combattere la mafia. Dall’altra parte c’era qualcuno, nello Stato, che faceva il doppio gioco e subito dopo l’omicidio iniziò a parlare di ‘attentato terroristico’. Senza quel depistaggio probabilmente si sarebbero scoperti anche altri mandanti.

Ovvero chi?
Nell’assassinio di mio fratello non c’era solo la mafia di Don Tano (Badalamenti, ndr): gli altri mandanti non sono stati scoperti perché c’erano collusioni e connivenze all’interno del sistema di potere politico e delle forze dell’ordine siciliane. Alcuni sono intoccabili e poi quando si toccano gli equilibri all’interno dell’arma e dei magistrati, non succede mai nulla. Perché dopo che non erano emerse prove sull’attentato terroristico finito male, nessuno iniziò a pensare all’omicidio mafioso nei confronti di un attivista che attaccava ogni giorno il boss Badalamenti?

Che effetto le ha fatto Subranni condannato in primo grado a 12 anni nel processo sulla Trattativa?
Non inveisco mai contro le persone che vengono condannate ma purtroppo i fatti ci hanno dato ragione: la condanna significa che c’era un riscontro su Subranni. Preciso: gli imputati per il depistaggio non sono stati assolti, ma prescritti, che è molto diverso.

E quindi?
Mi sento molto ferito, molti si dicono “garantisti” perché ormai va di moda. Anch’io mi reputo un garantista, ma noi che abbiamo vissuto sulla nostra pelle questa ingiustizia sappiamo cosa vuol dire: la prescrizione porta solo altre ingiustizie. Per questo, se fosse per me, la farei partire da quando un reato viene scoperto e non da quando viene commesso.

Com’è cambiata la sua vita dopo l’uccisione di Peppino?
Non mi sarei mai immaginato di incontrare così tante persone in tutta Italia che conoscono la storia di mio fratello e ci sostengono. Oggi, rispetto a quarant’anni fa, molto è cambiato: c’è la consapevolezza che la mafia vada combattuta, che non riguardi solo le quattro regioni del sud e negli ultimi decenni sono state approvate leggi molto buone come quella anti-racket o quella sulla confisca dei beni ai mafiosi. Tutte grosse conquiste sociali. Ma da tutta questa storia ho ricevuto molto di più di quello che ho dato.

Cosa dice ai ragazzi di oggi?
Semplicemente, porto Peppino nelle scuole. Il suo messaggio è di un’attualità impressionante e riporto sempre una sua frase molto famosa: ‘La mafia è una montagna di merda’. È molto forte come slogan, ma rimangono sempre colpiti e spero più consapevoli.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano 20 febbraio 2020

Foto © Imagoeconomica

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