di Charles Brandt
L’ex poliziotto che ha ispirato col suo libro il film di Scorsese: confessioni di un anziano sicario della mafia
Nel giugno del 2007 il mio libro The Irishman, che oggi è diventato un film diretto da Martin Scorsese, è comparso brevemente nella lista dei bestseller del New York Times. Il romanzo è basato sulle confessioni del sicario della mafia, ormai defunto, Frank Sheeran (in foto), registrate nel corso di cinque anni. Ero un investigatore della omicidi in pensione e avevo lavorato su più di 56 casi di omicidio. Nel 1988 avevo scritto un poliziesco, Il diritto di rimanere in silenzio, basato su una serie di interrogatori che mi avevano permesso di risolvere alcuni casi. Successivamente ho anche tenuto dei corsi di interrogatorio per poliziotti.
Frank “l’irlandese” Sheeran aveva letto il libro e mi contattò uscito di galera. In quanto cattolico ormai prossimo alla morte, Sheeran voleva espiare i 25-30 omicidi commessi per conto del capo della mafia Russell Bufalino e del capo dei Teamsters Jimmy Hoffa.
The Irishman racconta il viaggio di un uomo intrappolato tra due degli uomini, al tempo, più potenti d’America; le scelte che ha compiuto e come quelle scelte hanno influenzato la vita delle sue quattro figlie. Sheeran era stato un tiratore nella campagna d’Italia, nella Seconda guerra mondiale. Aveva passato 411 giorni sul campo di battaglia, aveva imparato ad uccidere i prigionieri. Le sue esperienze di guerra furono gli argomenti più difficili da affrontare durante gli interrogatori. Era più facile farlo parlare di un omicidio che aveva commesso in America di quello che aveva fatto alle guardie di Dachau.
Ho scritto The Irishman come se si trattasse di uno dei miei processi per omicidio, facendo appello alla giuria dell’opinione pubblica. Grazie all’interrogatorio di Frank, ho fatto luce su molti misteri intorno ad Hoffa ed a Crazy Joey Gallo; ed ho dimostrato, al di là ogni ragionevole dubbio, che la mafia americana fu responsabile dell’assassinio di JFK. E l’ho fatto portando a sostegno delle mie tesi prove più corroboranti di quelle che avrei normalmente sottoposto ad una giuria in un processo per omicidio.
Tre anni dopo l’uscita del libro, ricevetti una telefonata. Mi dissero che Robert De Niro che voleva parlarmi. Uno sceneggiatore gli aveva consigliato il mio libro. Colpito dalla complessità del personaggio dell’irlandese, De Niro si era interessato ai diritti del film. Mi precipitai nella camera da letto di mia madre, un’italiana di 93 anni, Carolina Di Marco Brandt, in fin di vita per un tumore. Mi guardò con i suoi occhi castani e disse: “Alza lo sguardo, Charles, sii grato”.
La volta successiva che ebbi l’occasione di “alzare lo sguardo” e di essere grato per le sorti del libro fu esattamente dieci anni dopo, nel giugno del 2017. Netflix aveva comprato i diritti del film. Martin Scorsese l’avrebbe diretto. Robert De Niro avrebbe interpretato l’irlandese; Al Pacino avrebbe interpretato Jimmy Hoffa; e Joe Pesci avrebbe interpretato il boss, Russell Bufalino. Nel cast c’erano anche Bobby Cannavale, Stephan Graham, Ray Romano e Anna Paquin. In estate Netflix mi aveva ospitato in un hotel tra Broadway e la 54esima. Sono uscito con la sceneggiatura in mano, per dirigermi verso la casa di Martin Scorsese, dove ero atteso anche da De Niro e dallo sceneggiatore premio Oscar Steve Zaillian per discutere del testo. Avevo i miei appunti con me.
Mi girai verso ovest lungo la 54esima e guardai con gratitudine ad un alto edificio della compagnia telefonica all’angolo tra la 54esima e la Nona. Nel 1960 avevo lavorato per il cementificio che lo aveva costruito. Camminavo sulle travi sospese in aria per recapitare messaggi. Rischiavo la vita per 65 dollari a settimana. Ero a mio agio sulle travi, sapevo che mio nonno Luigi Di Marco, operaio sindacalizzato nato nelle Marche in Italia, aveva camminato sulle travi dell’Empire State Building durante la costruzione per mantenere sua moglie Rosa e dieci figli.
E ora, nel 2017, stavo partecipando alla realizzazione di un capolavoro cinematografico basato su un libro che avevo scritto. “Alza lo sguardo, Charles”, mi dissi, mi voltai e andai est. Guardare l’edificio divenne un rito che dovevo ripetere ogni volta che uscivo dall’hotel durante quell’estate. E ora, nel 2019, io e mia moglie Nancy stiamo per andare in Italia per promuovere l’edizione italiana del libro, ospiti del nostro editore italiano Fazi. Al mio arrivo alzerò lo sguardo e sarò grato alla famiglia Di Marco.
Sembra che tutti in questo libro e in questo film siano italiani, persino l’editore del New York Times che una sera, a Little Italy, era al Clam House di Umberto, dove identificò l’irlandese come il killer solitario di Crazy Joey Gallo.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 1° dicembre 2019
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