di Fabrizio Gatti
A 26 anni dalla morte la Procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio di Olindo Canali, il magistrato che era Pm nel processo a esecutori e mandanti. Con l’accusa di aver favorito Cosa nostra
L’amore di un padre non smette mai di proteggere la propria figlia, anche se lei ormai è una giovane donna. E Beppe Alfano è un papà pieno di attenzioni. Lo sarà fino alla sera di venerdì 8 gennaio 1993, quando tre proiettili sparati da un revolver calibro 22 a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, fermano per sempre l’intelligenza di un giornalista scomodo. Un cronista controcorrente anche oggi, perché le sue simpatie a destra poco si adattano al cliché che vorrebbe gli eroi dell’antimafia schierati solo a sinistra. Così, grazie alla spiccata capacità di guardare dentro l’antropologia della Sicilia orientale, il caso Alfano brucia ancora nella sua irriverente attualità: pochi giorni fa la Procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio del magistrato che aveva sostenuto l’accusa al processo contro il mandante e l’assassino e ha riaperto le indagini di un giallo che, ventisei anni dopo, è ancora alla ricerca di un finale credibile.
L’allora pubblico ministero si chiama Olindo Canali, 64 anni, è nato in Brianza e oggi lavora come giudice del Tribunale di Milano nella sezione specializzata per l’immigrazione. Canali è accusato di corruzione in atti giudiziari: con l’aggravante, scrivono il procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto, Gaetano Paci, di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di Cosa nostra e in particolare della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto.
La Barcellona italiana, quella affacciata sul Tirreno, è una città di oltre quarantamila abitanti: dove, trent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, la Guerra Fredda con i suoi riti occulti non è mai terminata. Un giorno del 1992, qualche mese prima di essere ucciso, proprio quel sentimento di protezione che ogni genitore esprime, Beppe Alfano, 47 anni, avverte la figlia Sonia, che allora è una ragazza di 22 anni. “Io ero spesso in macchina con mio padre”, racconta Sonia Alfano, che nel procedimento di Reggio Calabria si costituirà parte civile contro il giudice Olindo Canali: “Una volta papà vide Saro Cattafi a Barcellona e lui non me lo indicò al momento, me lo disse dopo che ci eravamo passati con la macchina. Mi disse che era preoccupato, dopo che abbiamo incrociato questa persona. Gli ho detto: e chi è? Mi rispose: se Saro Cattafi è qua, vuol dire che deve succedere qualcosa o che c’è qualcosa in itinere. Gli ho detto: perché? Mi disse che era un esperto di armi e di esplosivi”. Le piste investigative inseguite da Canali, nel ruolo di pubblico ministero della Procura di Barcellona e poi di applicato alla Direzione distrettuale antimafia di Messina, non hanno mai coinvolto l’uomo indicato da Beppe Alfano.
Rosario Cattafi era rientrato da poco a Barcellona dopo anni trascorsi a Milano e in Svizzera, impegnato in “attività di intermediazione nel traffico d’armi estero su estero”. Così lo definisce nel 1986 il magistrato Francesco Di Maggio della procura di Milano, chiedendo il suo proscioglimento dall’inchiesta per il sequestro dell’imprenditore Giuseppe Agrati. Oggi Cattafi ha 67 anni e una fedina giudiziaria in punta di diritto: dichiarato colpevole di calunnia e associazione mafiosa senza ruoli direttivi dagli anni Settanta al 1993, dopo il rinvio della Corte di Cassazione è in attesa del giudizio in appello per gli anni dal’93 al 2000. L’episodio che lo riguarda è ricordato nella memoria con cui Sonia Alfano, assistita dall’avvocato Fabio Repici, si è opposta alla recente richiesta di archiviazione dell’ultima indagine sull’agguato: un fascicolo ancora aperto a Messina, di cui però potrebbe essere disposto il trasferimento alla Procura di Reggio Calabria, competente sui magistrati in servizio nella Sicilia orientale. L’avvocato Francesco Arata, uno dei difensori di Olindo Canali, spiega si tratta di una questione già “chiarita, nota, vecchissima: ripresa ora nel contesto e a supporto di una vicenda calunniosa, reiterata dopo l’assoluzione completa di Canali qualche anno fa”.
Il magistrato Olindo Canali
Il procuratore Bombardieri e l’aggiunto Paci chiedono comunque il rinvio a giudizio del giudice in concorso con il boss della mafia di Barcellona, Giuseppe Gullotti, 59 anni, e un ex killer, Carmelo D’Amico, 48 anni, oggi collaboratore, secondo il quale alcune dichiarazioni irrituali di Canali e qualche errore procedurale sarebbero stati fatti in cambio della promessa di denaro. Mediatore tra la mafia e il magistrato, sarebbe un medico, Salvatore Rugolo, figlio del perdente capoclan di Barcellona e cognato di Gullotti, il nuovo boss.
Il giudice, interrogato un anno fa a Reggio Calabria, respinge le accuse di corruzione e ammette la frequentazione saltuaria con Rugolo tra la seconda metà del 2003 e i primi mesi del 2005. Perché, spiega, tutti dicevano che si era staccato da Gullotti e dal padre e aveva cercato di tirarsi fuori. Il medico nel frattempo è morto in un incidente stradale. I tormentati gradi del processo agli assassini di Beppe Alfano si concludono soltanto nell’aprile 2006: quando diventa definitiva la sentenza a ventuno anni di carcere per Antonio Merlino, ritenuto l’esecutore materiale, che si aggiungono ai trent’anni irrevocabili dal 1999 per il boss Giuseppe Gullotti, riconosciuto come mandante. Ma qualche mese prima, arriva il colpo di scena.
A gennaio 2006, Canali spedisce due memorie personali: una all’avocato della famiglia Alfano, l’altra al giornalista della “Gazzetta del Sud”, Leonardo Orlando, con le quali sostiene che Gullotti era stato condannato ingiustamente per l’omicidio del giornalista e che comunque sulle prove della sua responsabilità gravavano dubbi e perplessità tali da chiedere e ottenere la revisione della condanna. Né il procuratore di Messina, né il capo della Procura di Barcellona vengono però preventivamente informati dal pubblico ministero.
Canali in quegli stessi mesi ha già perso il suo incarico alla Direzione distrettuale antimafia: il 30 maggio 2005 rappresenta per l’ultima volta l’accusa al maxiprocesso “Mare nostrum”, poi la sua applicazione viene revocata in seguito agli incontri, documentati dalla polizia giudiziaria, con Salvatore Rugolo il cognato del mandante dell’omicidio di Beppe Alfano. In cambio di atti contrari ai propri doveri d’ufficio, dichiara ora il collaboratore D’Amico, il magistrato avrebbe accettato la promessa della consegna di trecentomila euro, dalla quale avrebbe ricevuto una prima parte da cinquantamila, allo scopo di favorire la posizione processuale di Gullotti.
Deciderà il giudice per le indagini preliminari se i moventi sul conto personale sono dovuti alla vendita di beni propri come Canali ritiene di aver sufficientemente dimostrato. Ma le repliche alla sua versione messa a verbale non sono lusinghiere. Gianclaudio Mango, pm antimafia di Messina ora in pensione, dichiara di essere rimasto sorpreso dai rapporti del collega, perché Rugolo era il figlio di un capomafia ucciso e cognato di colui che veniva considerato il capo della famiglia di Barcellona, nonché imputato dell’omicidio Alfano: sebbene su Rugolo figlio non fosse emerso nulla di penalmente rilevante, almeno all’epoca, tali circostanze avrebbero dovuto sconsigliare Canali dalla frequentazione. Il tenente colonnello dei carabinieri, Domenico Cristaldi, racconta a verbale come già nel 2003 Salvatore Rugolo e il magistrato fossero soliti circolare insieme, a piedi o in macchina, per il centro di Barcellona. E di come abbia notato diverse volte Rugolo a bordo dell’auto di servizio dei carabinieri, sulla quale viaggiava anche Canali. Proprio per questa ragione l’allora capitano Cristaldi decise di ritirare l’auto. Luigi Croce, procuratore a Messina dal 1998 al 2008, ricorda invece di aver chiesto la revoca dell’applicazione di Canali dal maxi-processo “Mare nostrum” dopo una relazione di servizio dei carabinieri, che avevano visto il magistrato a pranzo con il cognato del boss Gullotti in un ristorante fuori Messina. Olindo Canali arriva a Barcellona dalla Procura di Monza il 22 Maggio 1992, la vigilia della strage di Capaci. E Beppe Alfano, secondo i suoi colleghi al quotidiano “La Sicilia”, ha con il nuovo pubblico ministero un rapporto confidenziale. Alfano in redazione dice di essere certo che il boss Benedetto “Nitto” Santapaola si nasconda in città. E forse scopre che un apparato statale ne segue la latitanza da vicino, senza arrestarlo. Un ulteriore, possibile testimone è l’avvocato siciliano Ugo Colonna, che è anche il secondo difensore nominato ora da Canali. Interrogato in un altro procedimento dalla Distrettuale antimafia di Messina nel 2002, poco prima che il magistrato brianzolo cominci a turbare colleghi e carabinieri, Colonna spiega il ruolo di Salvatore Rugolo.
“A capo di Barcellona c’è il figlio di Rugolo, il medico che è uno importante”, dice Colonna. “Il cognato di Gullotti?”, chiede il pubblico ministero, Rosa Raffa. “Di Pippo Gullotti”, conferma l’avvocato. Ma nella sua ricostruzione storica, una risposta è dedicata anche a Nitto Santapaola, di cui parlano alcuni collaboratori che il legale assiste: “L’intelligenza di Santapaola è quella di mettersi con lo Stato. Mai contro lo Stato perché lo Stato, deviato ovviamente, non fa la giustizia, lo Stato fa gli interessi particolaristici di queste persone: quindi mi devo mettere con lo Stato”, aggiunge Ugo Colonna riferendosi ai mafiosi, “perché nel momento in cui mi distacco dallo Stato, in sostanza, vengo combattuto”. Barcellona, secondo Colonna, è ormai al vertice: “I gruppi di Riina e di Santapaola vengono buttati via dopo le stragi, no? I barcellonesi sono la nuova Cosa nostra”. Aveva scoperto questo, Beppe Alfano? E con chi aveva parlato? Gullotti intanto non perde l’occasione. Già ha evitato l’ergastolo perché, pur condannato come mandante dell’omicidio, nella richiesta di rinvio a giudizio il pubblico ministero di Barcellona non gli aveva contestato l’aggravante della premeditazione. Ma oggi può addirittura sperare di tornare libero. Le due memorie scritte dal magistrato al di fuori del rito giudiziario, cioè il presunto corpo del reato nel procedimento penale che riguarda sia Canali sia il boss, hanno avuto un’incredibile conseguenza legale. Il 10 ottobre 2019 la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dopo aver accolto l’istanza dei difensori, ha avviato il giudizio di revisione a favore di Giuseppe Gullotti. Dal carcere di Parma, il capomafia si prepara a una seconda vita. I figli e la moglie di Beppe Alfano a un nuovo, ingiusto dolore.
Tratto da: L’Espresso del 24 novembre 2019