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borsellino s c barbagallo 2014 2Intervista a Salvatore Borsellino
di Antonio Villella
Il fratello del giudice Paolo Borsellino, ucciso nella strage di via D'Amelio, ci ha concesso un'intervista nella quale affronta diversi aspetti delle mafie

Salvatore Borsellino è nato a Palermo nel 1942. È il fratello di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio del 1992. È un ingegnere elettronico, ma nel 2009 fonda il Movimento Agende Rosse e parallelamente alla sua attività, porta avanti il suo impegno civile. Ci ha gentilmente concesso un’intervista.

Ingegner Borsellino, che cos’è il Movimento Agende Rosse? Come nasce e qual è il suo scopo?
Il Movimento è nato intorno agli incontri che ho io fatto da 25 anni a questa parte, dopo la strage di via d’Amelio, in seguito ad una promessa che mi ha fatto fare mia madre dopo la morte di Paolo, ovvero di non far morire il suo sogno, di continuare a parlare di Paolo e di quella che era la sua battaglia per sconfiggere questo cancro che da sempre corrode il nostro paese. Quando Paolo è stato ucciso, mia madre ha chiamato me e mia sorella e ha detto: fino a quando voi parlerete di Paolo, fintanto che racconterete il suo impegno, Paolo non sarà morto. E noi l’abbiamo fatto da 25 anni a questa parte. Quando io ho capito che cosa è stato veramente quel 19 luglio, cioè non soltanto una strage di mafia, ho cominciato a parlare dell’agenda rossa, che per me è un punto fondamentale di quella strage, che è stata fatta in quel momento ed in quel posto anche e soprattutto per far sparire l’agenda rossa. Dopo un po’ di tempo diversi giovani, che erano quelli che incontravo più spesso, hanno cominciato ad alzare dei cartoncini rossi agli incontri, come simbolo della tragedia. Quindi in maniera quasi spontanea, da questi incontri è nato il Movimento Agende Rosse, che si prefigge soltanto di chiedere verità e giustizia su quelle stragi. Noi riteniamo che quella strage fu un nodo fondamentale della storia del nostro paese, pertanto continuiamo a chiedere verità e giustizia che purtroppo in 25 anni non sono mai arrivate. Verità occultate da segreti di stato che pesano come pietre tombali sui veri motivi di quella strage.

In questi anni si è registrata una proliferazione di associazioni e movimenti che si prefiggono gli stessi obiettivi del movimento che lei ha fondato, ma parallelamente si è registrato anche un calo di attenzione da parte dell’opinione pubblica. Lei come se lo spiega?
È fisiologico. L’opinione pubblica purtroppo si sveglia solo in seguito a fatti eclatanti, come le stragi o lo spargimento di sangue. Questo è uno dei motivi che hanno permesso alla mafia di inabissarsi e cambiare strategia. Altri magistrati infatti sono stati uccisi i maniera diversa, cioè non con le bombe ma con altri metodi, con le “carte”. Mi riferisco per esempio a quanto accaduto al sindaco di Napoli De Magistris. Il sangue provoca reazione  da parte della gente, pertanto i mafiosi hanno cambiato metodo.

Si avvicina il venticinquesimo anniversario della strage di via D’Amelio. In questo periodo non sono più esplose bombe e si è placata la strategia stragista. Questo significa che la mafia è stata in qualche modo arginata, oppure che ha accresciuto la sua forza?
Dipende da che cosa si intende per mafia. Se ci si limita a pensare alla mafia dell’immaginario comune, cioè quella armata e quella degli affiliati è un conto. Ma se invece si intende un qualche cosa di più ampio, cioè quel gorgo di culture in cui la mafia prolifera, e tutto ciò che le sta intorno, come chi collude con la mafia, chi stringe accordi, chi fa affari, chi chiede voti e poi ricambia con favori, ma anche l’indifferenza nei confronti di questa organizzazione ed il proliferare di certi comportamenti mafiosi, allora la mafia è molto più forte di quanto poteva essere nel 1992. La mafia trova forza nella corruzione, negli scambi di favori, nell’omertà e nell’indifferenza.

In che misura sono cambiate le mafie? Quali sono i nuovi introiti?
Le mafie cambiano spesso, si sono globalizzate molto prima che si globalizzassero le industrie dei paesi. Molto prima che la Fiat aprisse stabilimenti in Polonia, la n’drangheta aveva stabilito n’drine in Colombia per poter trattare direttamente con i narcos. In questo senso le mafie sono cambiate. La mafia oggi è finanza, dispone di immensi capitali che sono addirittura in grado di provocare crisi finanziarie grazie allo spostamento di questi capitali. Non si può limitare la visione al solo traffico della droga per esempio, anzi probabilmente esistono attività più lucrose, come il traffico di esseri umani o quello dei rifiuti pericolosi, che si ricollega all’accaparramento degli appalti. Quando un appalto viene assegnato secondo la legge del massimo ribasso, chi può contrastare coloro ai quali il denaro non costa nulla? Il denaro per queste persone deve essere soltanto riciclato e ripulito e se poi il costo dell’opera che viene accaparrata serve magari ad occultare rifiuti pericolosi sotto agli asili o sotto le rotonde, si vede quanto e come l’economia pulita e la libera concorrenza vengano drogati da questi meccanismi, che utilizzano società di comodo e subappalti. All’interno dell’inchiesta su Mafia Capitale per esempio, in un’intercettazione si sente dire che il traffico di esseri umani è molto più lucroso di quello della droga. In tante cose le mafie sono cambiate. Sono aziende al passo coi tempi.

Ma aldilà del cambiamento degli investimenti, l’organigramma di queste organizzazioni sono rimaste immutate? Cosa Nostra per esempio è ancora strutturata come lo era nel 1992?
Oggi la mafia, intendendo quella siciliana, ha sicuramente perso terreno nei confronti di quella globale. Soprattutto rispetto a quella calabrese, da sempre strutturata diversamente, cioè secondo organizzazioni parallele ed orizzontali, in maniera differente quindi dall’organizzazione verticistica di Cosa Nostra. Queste differenze strutturali esistono ancora. La n’drangheta ha maggiori capacità di infiltrazione nel territorio e sicuramente oggi nei luoghi in cui è nata, gode di un consenso che si avvicina a quello di cui godeva Cosa Nostra in Sicilia tempo addietro. Oggi in Sicilia da quel punto di vista le cose sono cambiate. In Calabria no, il consenso è pressoché generale, capillare. Per quanto ne so io, in Calabria lo Stato è la n’drangheta e può contare su un consenso che si aggira intorno all’80% della popolazione.

Sono cambiati anche i rapporti tra le diverse organizzazioni? Sono cambiati i giochi di forza?
Ritengo di sì. Io ovviamente non sono un esperto, un accademico delle mafie per così dire. Io me ne occupo a titolo personale per far luce appunto sulla verità e sulla giustizia, che è il mio obiettivo fondamentale. Ma mi occupo del mio lavoro, l’informatica, che mi appassiona e sono ben felice di occuparmene. Il mio lavoro mi ha sempre divertito e se non mi avessero pagato, avrei pagato io per farlo.

Lei non è esperto quindi, se ne occupa in qualità di rappresentante della società civile. Ma aldilà dell’impegno civile, cosa dovrebbe fare la politica per aiutare chi come lei si batte per questi temi?
La politica nel nostro paese dovrebbe mettere al primo posto la lotta alla criminalità organizzata, non intesa, ripeto, come mafia armata, perché a questa sono stati effettivamente inferti colpi molti forti. Ma non da parte dello Stato nel suo complesso, bensì da quelle istituzioni a cui da sempre è stata delegata questa lotta, ovvero alla magistratura e alle forze dell’ordine. Lei ha mai sentito un politico in campagna elettorale mettere al primo posto la lotta alla mafia? No ed anzi, non ne parla neppure. Si parla di altro, ma non di quella corruzione che è la cartina tornasole della penetrazione mafiosa nelle organizzazioni statali. Più è alta la corruzione, più la mafia è potente. Chi dispone di capitali per alimentare questa corruzione? Oltretutto esistono leggi criminose che alimentano questo stato delle cose, come per esempio la depenalizzazione del falso in bilancio. A cosa serve il falso in bilancio? A costituire fondi neri. E a cosa servono questi fondi neri? Ad alimentare la corruzione. Purtroppo la politica non ha fatto la sua parte e spesso magistrati e forze dell’ordine sono rimasti soli. Mi riferisco per esempio a Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, al generale Dalla Chiesa, che sono rimasti isolati e proprio per questo sono stati eliminati. La lotta alle mafie invece dovrebbe essere corale. Non è cosi ed anzi in Italia, ripeto, sono state promulgate leggi criminose. Mi riferisco ad esempio a quella che in tanti chiamano “riciclaggio di Stato”, che permette il rientro di capitali illegali pagando delle penali irrisorie. O come il recentissimo esempio di quella direttiva europea che è stata vidimata in Italia, che impedisce di svolgere un processo se non viene notificato all’imputato stesso. Può avere forse senso in altri paesi nei quali la latitanza dura al massimo un mese, ma in Italia la latitanza può durare anche 40 anni. Ad esempio dovrebbe prendere avvio il processo Borsellino quinques nel quale l’imputato principale è Matteo Messina Denaro. Questo processo non può partire perché Denaro è latitante. Secondo questo meccanismo il maxi processo non sarebbe mai avvenuto. Si sarebbero dovute stralciare le posizioni di Riina e di tanti altri latitanti. Se poi si tiene conto che non esiste una legislazione europea per la lotta alla criminalità organizzata, mentre la criminalità organizzata si è globalizzata, come si può combatterla globalmente? Quando mia sorella era parlamentare europea e faceva parte di una commissione che avrebbe dovuto studiare una legislazione comune europea per la lotta alle mafie, doveva innanzitutto far capire agli altri eurodeputati che cosa fosse la criminalità organizzata, che in altri paesi non esiste. Ma si sentiva rispondere frasi del tipo: a noi non ci interessa da dove arrivino questi capitali, basta che una volta arrivati paghino le tasse. A fronte di queste carenze, sia nella legislazione italiana, in cui tante leggi sono state fatte per pagare una scellerata trattativa che è costata la vita a Paolo Borsellino ed ai ragazzi morti insieme a lui [Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Caludio Traina n.d.r.], sia dalle carenze della legislazione europea, capisce bene come lo scenario sia desolante.

Ma secondo lei, la tanto discussa trattiva c’è stata? Oppure è in ancora corso? Perché a questo punto è innegabile che un dialogo che tra Stato e mafia sia avvenuto, tenendo conto anche dei nuovi elementi e alle nuove testimonianze.
Sicuramente ne sono ancoro in corso gli effetti, perché chi ha partecipato a quella trattava adesso occupa posti di potere. Quando ne parlo, dico metaforicamente che questa seconda repubblica, o terza repubblica, o come la si vuol chiamare, ha le fondamenta intrise di sangue. Nel nostro paese quando si è passati da un equilibrio politico all’altro, il passaggio è avvenuto attraverso le stragi di Stato, come quello della Ginestra, della banca dell’Agricoltura, della stazione di Bologna e altre ancora. Sono state tutte stragi avvenute in momenti particolari in cui bisognava passare da un equilibrio politico all’altro. L’ultimo passaggio, che fu quello successivo a Mani Pulite, fu determinato dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio, soprattutto quest’ultima, che fu anomala, affrettata. Fu fatta per evitare che questa trattativa fosse interrotta. Sicuramente Paolo l’avrebbe denunciata e perseguita come reato. La strage di via d’Amelio fu un piano B per accelerare un processo che comunque sarebbe avvenuto. Paolo sicuramente sarebbe stato eliminato, ma non 57 giorni dopo Falcone. La mafia sa attendere e sa cogliere i momenti giusti. Per questo è vero che uccide solo di estate, però è difficile che nella stessa estate uccida due personaggi del calibro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La strage di via D’Amelio ha determinato l’ultimo passaggio di equilibrio di potere, dopo il disfacimento dei partiti tradizionali, quelli di massa. Ancora oggi viviamo sulle conseguenze di quella trattativa e di quel nuovo equilibrio che ha determinato. Io ritengo che in questo momento stiamo vivendo un periodo simile purtroppo, quindi se qualche sistema di potere resiste, sarà necessaria una strage di Stato per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica. Falcone invece fu ucciso perché in quel momento perché sarebbe diventato super Procuratore nazionale, un vero incubo per la mafia. Quella stessa super Procura alla quale mio fratello in un primo momento era contrario, nelle mani di Falcone sarebbe diventata uno strumento mortale per la mafia. Sarebbe riuscito a creare quella lotta corale di tutte le istituzioni. Questo è sempre mancato nel nostro paese.

C’è stato un tempo in cui la lotta alla mafia era appannaggio esclusivo di una fazione politica. Mi riferisco per esempio all’impegno di Peppino Impastato, che non ha mai nascosta la propria ideologia. E bisogna tenere conto anche dei legami tra le organizzazioni criminali e le destre eversive. Cosa è cambiato?
Esistono oggi fazioni politiche? No, esistono i partiti. È vero che tanto tempo fa ormai, la lotta alla mafia era esclusiva della sinistra, ma ricordiamoci che oggi i partiti non esprimono più quel senso ideologico. E non dimentichiamoci le gravi responsabilità che il P.C.I. siciliano nell’eliminazione di Pio La Torre. Oggi bisogna distinguere tra politica e partiti. Oggi per esempi non esistono più partiti di destra e sinistra, le ideologie sono sparite e sono state sostituite dai partiti, che con esse non hanno nulla a che fare.

Rimanendo in ambito politico, le tempo fa espresse vicinanza al progetto di Antonio Ingroia, Rivoluzione Civile...
Avevo fatto un’apertura di credito che immediatamente ho chiuso. Anche per quello che era stato il tipo di politica che Ingroia ha portato avanti, subito dopo il suo ingresso sulla scena politica. Si è rivolto a vecchi partiti, per cui si è immediatamente persa l’immagine di qualcosa che doveva essere nuovo. Mi chiese di indicargli delle persone provenienti dal mio Movimento che potessero impegnarsi ed io così feci. Tuttavia Ingroia li mise agli ultimi posti delle liste, come riempimento, privilegiando invece personaggi appartenenti ai vecchi meccanismi elettorali ed accordi con i residui di vecchi partiti rimasti in parlamento. Come finì l’avventura di Ingroia l’abbiamo visto tutti. Quella apertura la chiusi immediatamente, come altre fatte in passato, delle quali mi pentii immediatamente. Ad esempio all’Italia dei Valori di Di Pietro. Personaggi che non conoscevo usavano l’agenda rossa per accaparrare voti, ma senza convinzione. Era solo uno sfruttamento politico del mio nome e della mia iniziativa. Immediatamente tolsi l’apertura di credito concessa. Ho pertanto deciso di tenermi lontano dalle competizioni elettorali. Non significa che io non abbia passione politica, per esempio sostenni la seconda corsa di De Magistris a sindaco di Napoli. Ma ormai mi baso sugli uomini, non sui partiti. Tanto è vero che oggi De Magistris non è identificabile con nessun partito. Sono i partiti che rovinano la politica purtroppo. Come le correnti rovinano la magistratura. Ingroia era un  ottimo magistrato, come politico fu un totale fallimento. Ha combinato un casino dopo l’altro, fino all’ultima inchiesta che adesso lo riguarda. Indubbiamente ha mantenuto atteggiamenti non consoni ad un magistrato. Io ritengo che un magistrato nel momento in cui entra in politica dovrebbe abbandonare completamente la toga. Rimanere a mezzo servizio, come sta facendo per esempio Michele Emiliano non ha senso. La separazione dei poteri dovrebbe avere riflessi anche in queste cose. Per carità non voglio dir che i magistrati non possano esprimersi o manifestare le proprie idee, sono dei cittadini e quindi è un loro diritto, ma non devono dimenticare la loro missione.

Un tempo Cosa Nostra è entrata in politica, adesso sembra che il processo si sia invertito, cioè che sia la politica ad inseguire Cosa Nostra. Lei che ne pensa?
C’è stato un periodo in cui Cosa Nostra stava entrando in politica. Nei primi anni ‘90 Bagarella, sulla falsa riga delle leghe che stavano sorgendo al nord, aveva iniziato a metter in piedi il partito Sicilia Libera. Successivamente ci fu una marcia indietro, nel momento in cui venne identificato un partito idoneo ai suoi interessi, che stava nascendo in quel momento. Mi riferisco a Forza Italia. Lo ammette Berlusconi stesso quando, riferendosi a Dell’Utri disse: senza quest’uomo Forza Italia non esisterebbe. Lo stesso personaggio che oggi è in galera per concorso esterno in associazione mafiosa. Pertanto è possibile affermare che senza la mafia Forza Italia non esisterebbe. Non c’è dubbio. Ci fu questa marcia indietro perché la mafia capì di non poter entrare in politica direttamente, doveva appoggiarsi ad una forza esterna e continuare a fare il suo mestiere. Tanto i politici sono molto sensibili agli argomenti che la mafia può utilizzare, cioè offrire voti, oppure denaro, in cambio di favori. I politici ai voti e al denaro sono molto sensibili. Sicuramente oggi può avere maggiore appoggio all’interno della politica perché la mafia si evolve: i figli dei mafiosi studiano ed alcuni di essi entrano in politica. Non scordiamoci però che è successo anche in passato. Vito Ciancimino, affiliato alla mafia, era un politico. La commistione c’è sempre stata. Ciancimino ebbe un ruolo fondamentale nella prima trattativa, perché di trattative ce ne furono due. La prima aveva come protagonista Riina, la seconda Provenzano, più “moderato”, meno stragista ed orientato alla sommersione della mafia. In questo caso l’interlocutore non era più Ciancimino, ma Marcello Dell’Utri.

Ritornando a suo fratello, di lui si è sempre avuta l’immagine di un uomo votato al sacrificio dopo l’uccisione del giudice Falcone. Lei concorda con questa visione?
No io mi sono fatto un’altra idea. Nel momento in cui si è reso conto da quello Stato al quale aveva prestato giuramento, partiva la minaccia, ha accettato il suo destino. Confidò alla moglie di sapere che sarebbe stato ucciso dalla mafia, ma che la sua morte sarebbe stata voluta dallo Sato. Mio fratello non era votato al sacrificio. Aveva un senso dello Stato elevatissimo. Nel momento in cui si rese conto che proprio dall’interno sarebbe arrivata la mano che l’avrebbe ucciso e che gli aveva ucciso il fratello, perché era Giovanni Falcone il vero fratello di Paolo, io credo addirittura che mio fratello abbia desiderato di morire, che avesse capito che era giunta la sua ora, perché non avrebbe potuto continuare a vivere in quella condizione. Tutto quello in cui aveva creduto stava venendo meno. Lei pensi ad un soldato che sta combattendo il nemico e che a un certo punto si accorge che i proiettili arrivano non solo da chi gli sta di fronte, ma anche dalle spalle. Questo soldato che cosa potrebbe fare? Contro chi dovrebbe lottare? Io penso che Paolo ad un certo punto ha considerato conclusa la sua vita terrena ed abbia accettato di sacrificarsi, rendendosi conto che la sua morte sarebbe potuta essere la sua vita. Non voglio essere blasfemo, ma io credo che mio fratello doveva morire esattamente come Gesù Cristo, che dovette andare sulla croce per redimere l’umanità. Mio fratello ha fatto lo stesso. La sua battaglia l’avrebbe continuata da martire, da giudice non ne aveva più gli strumenti. Il suo iter era concluso, lo Stato lo stava tradendo. Mio fratello non è stato un eroe, è stato un martire.

Crede che questo martirio sia servito?
Credo di sì. Tanto giovani, ancora oggi a 25 anni di distanza, che magari non erano nemmeno nati quando mio fratello è morto, mi vengono a dire "io voglio fare il magistrato per continuare la missione di suo fratello". E non parlo di uno o due. Qualcuno ci è riuscito già ed adesso è magistrato. Io nel ‘94 conobbi una ragazzina che all’epoca aveva 13 anni. Ero al balcone di via D’Amleio con mia sorella questa ci salutò dalla strada. Scendemmo per chiederle cosa volesse e lei disse che veniva da Aviano, nel Friuli, ed era giunta fin lì per dirci che voleva diventare magistrato ed oggi è così. Recentemente ho conosciuto un’altra ragazzina, sempre di 13 anni, di Torino, che mi ha detto di voler diventare magistrato a Palermo, per completare l’opera di suo fratello. Quindi Paolo non è morto, è vivo in queste persone. Nel nome di Paolo oggi tanti giovani continuano a combattere.

Ritorniamo alla strage di via D’Amelio. Esiste una foto che immortala un carabiniere [Giovanni Arcangioli n.d.r], che si allontana con la borsa di suo fratello, nella quale al 99% era custodita la famosa agenda rossa, vero e proprio diario della sua attività investigativa.
Non al 99, al 100% a meno che mia cognata e mia nipote non abbiano mentito quando hanno dichiarato che Paolo prese l’agenda e la mise nella borsa. Ma ad oggi non son mai state indagati per falsa testimonianza. Purtroppo in merito alla vicenda non si è mai arrivati alla fase dibattimentale al processo. Arcangioli è stato assolto all’udienza preliminare senza dibattimento pubblico e senza confronto con i testimoni che quel 19 luglio erano in via D’Amelio. Sono state date diverse versioni. Fino all’ultimo processo, Borsellino quattro, sette testimoni forniscono versioni totalmente diversa l’una dall’altra e diversa da quella fornita dalla stessa persona che si è allontanata con la borsa. Addirittura fu chiamato in causa un giornalista, Felice avallaro, che confermò le dichiarazioni di Giuseppe Ayala [giudice al quale Arcangioli avrebbe consegnato la borsa, secondo la testimonianza di quest’ultimo n.d.r.] che quel giorno non era in via D’Amelio e questo è stato appurato dopo aver visionato tutte le immagini girate il giorno della strage. Cavallaro non c’era. E il processo sull’agenda rossa si concluse in fase di udienza preliminare, strano in un paese in cui i processi durano anni e ci mostrano fino all’ultimo dettaglio. Addirittura La Barbera [questore che si occupava delle indagini n.d.r.]disse testualmente a mia cognata Agnese, relativamente alle dichiarazioni sull’agenda rilasciate da lei e sua figlia: "dica a sua figlia Lucia di smetterla di parlare di queste fantasie". Secondo lei perché mia cognata aspettò gli ultimi anni di vita per diffondere alcune confessioni che le aveva fatto suo marito? Per esempio per quanto riguarda Subranni [comandante del ROS dal 1990 al 1993 n.d.r.] o altre cose. Ha aspettato perché ha ricevuto intimidazioni e minacce. Ha aspettato di essere vicina alla morte.

Ingegnere le faccio la domanda più scontata. Le mafie si possono sconfiggere?
Sì ma il processo è lungo e difficile. Diceva Bufalino: "la mafia può essere sconfitte da un esercito di maestri elementari". Io me ne sono reso conto nel corso degli anni. La sconfitta definitiva delle mafie avverrà solo investendo sui giovani ed attraverso un completo ricambio generazionale. La mafia deve essere sconfitta da un punto di vista socio-culturale. Io fino a qualche anno fa incontravo anche gli adulti, ma poi ho smesso, vado solo nelle scuole per incontrare i giovani. Lì la mafia sarà sconfitta. Continuerà ad esistere magari la criminalità organizzata, ma la mafia intesa come consenso, collusione, indifferenza, omertà, accettazione, cioè la mafia che consiste nel chinare la testa verrà sconfitta. Lo pensava anche Paolo che nell’ultimo giorno della sua vita, inviò una lettera ad un liceo in cui scrisse di essere ottimista e forse sapeva che la sua vita sarebbe terminata quel giorno. Eppure era ottimista. Sapeva che quando quei giovani sarebbero cresciuti avrebbero avuto più forza e più strumenti per sconfiggere le mafie rispetto alla sua generazione. In questo sta il vero testamento di Paolo.

Ma nelle nuove generazioni, il problema è chiaro? Esiste un’adeguata informazione?
No assolutamente. A me è addirittura capitato sentire da alcuni presidi che nelle scuole di mafia non bisogna parlare. Mi è capitato che fosse negato ai ragazzi di partecipare agli incontri che loro stessi avevano richiesto. Dovevo farlo solo nelle autogestioni. Purtroppo c’è ancora una forte resistenza. Io ho perso la speranza di vedere la fine della mafia. Falcone sosteneva che la mafia è una cosa umana e come tutte le cose umane ha un inizio ed una fine. Io probabilmente non vedrò la fine, pertanto mi sto concentrando verso i giovani, come speranza per il futuro.

Grazie ingegner Borsellino.

Tratto da: ilmartino.it

Foto © Giorgio Barbagallo

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