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alpi hrovatin militari ciriellodi Donatella D'Acapito
Adesso sappiamo chi non ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Adesso sappiamo che Hashi Omar Hassan è innocente. Ma manca la verità. Manca innanzitutto di sapere chi ha scelto di creare un falso testimone affinché si avesse un nome da accusare per chiudere rapidamente questo caso.
La sentenza di assoluzione per Hashi Omar Hassan, il solo ad essere stato condannato – e a 26 anni – per l’omicidio della giornalista del Tg3 e del suo operatore, è arrivata ieri. La Corte d’appello di Perugia lo ha “assolto per non aver commesso il fatto” dopo una camera di consiglio brevissima, indice di come l’insieme delle accuse contro il giovane somalo fosse, per usare le parole del Procuratore Generale, Dario Razzi, pronunciate “un quadro bianco, senza figure, senza niente”. Ed era stato lo stesso procuratore generale a dire durante la requisitoria: “Dobbiamo avere anche il coraggio di ammettere che Hashi Omar Hassan possa essere innocente”.
Un innocente che a gennaio del 1998 arriva a Roma per testimoniare contro le presunte violenze dei militari italiani in Somalia e che, dopo due giorni, finisce per essere arrestato per concorso in duplice omicidio. E non basta l’assoluzione in primo grado a riportare i tasselli a posto, perché la sentenza d’appello – non affrontando una serie di interrogativi e contraddizioni – ribalterà il verdetto facendo di Hashi il solo condannato che per questo passerà 16 anni in carcere e uno e mezzo in semilibertà, affidato ai servizi sociali.
Il lavoro della Procura generale di Perugia fatto nel processo di revisione ha permesso di ricostruire il ruolo di vari personaggi, l’insieme di incongruenze, imprecisioni e azioni sospette che per vent’anni hanno caratterizzato l’inchiesta. Un lavoro che, quanto meno, ha stampato, quanto meno, un grosso punto interrogativo, sul ruolo svolto dall’allora ambasciatore Giuseppe Cassini, mandato a Mogadiscio proprio per raccogliere gli elementi e le testimonianze su cui si baserà l’inchiesta romana ma che davanti a alla corte d’appello di Perugia troppo spesso “non ricorda” e si limita a confermare quanto dichiarato in passato, anche se si tratta di versioni discordanti. E che dire di Giancarlo Marocchino, figura da sempre discussa: ascoltato il 5 aprile scorso ha affermato che il nome di Hashi non era nell’elenco dei componenti del commando che la sua guardia del corpo, Bashir, si era riuscito a procurare all’epoca dei fatti. Elenco noto – ha detto – anche alla commissione parlamentare d’inchiesta. Ma, soprattutto, il processo di Perugia ha smontato pezzo per pezzo le affermazioni del presunto testimone oculare Ali Rage Amhed, detto Gelle, arrivato nel nostro Paese solo per allontanarsi dalla Somalia.
Gelle, ascoltato dalla polizia, accusa Hashi. In aula non si presenterà mai, anzi: scappa. Nel 2002, a ridosso, della condanna di Hashi, l’uomo telefona al giornalista somalo Sabrie sostenendo di aver “accusato qualcuno che non c’entra nulla con l’omicidio dei due giornalisti”. E aggiunge: “Per farlo sono stato pagato dalle istituzioni italiane”. Poi Gelle smentisce le accuse una seconda volta, fornendo dettagli inquietanti sul modo in cui è nata la sua testimonianza. Gelle è in Inghilterra, lì dove lo trova Chiara Cazzaniga, giornalista della trasmissione di Rai 3 “Chi l’ha Visto?”. E per fortuna che ci riesce lei, visto che gli investigatori incaricati di farlo non erano riusciti a rintracciarlo… Dopo che l’intervista della Cazzaniga va in onda, Gelle conferma la ritrattazione anche ai pm di Roma. La Procura Generale di Perugia ieri ha sottolineato la totale inattendibilità della sua testimonianza, così come inconsistente ha giudicato la testimonianza di Ali Mohamed Abdi Said, autista di Ilaria e Miran, anch’egli impegnato nel fare di Hashi il colpevole.
Visti i fatti, il verdetto sembra essere scontato. E infatti lo è.
Il Presidente della Corte non fa neanche in tempo a leggere la formula di assoluzione piena che la gioia di Hashi esplode in un abbraccio commosso con Chiara Cazzaniga. Poi la corsa del ragazzone somalo verso la signora Luciana, mamma di Ilaria, che è lì composta, determinata nel suo dolore di madre, dignitosa come lo è sempre stata in questi anni. Si abbracciano anche loro, visibilmente emozionati, e Luciana con dolcezza lo accarezza dicendogli “In bocca al lupo per tutto”.
“La sola soddisfazione è per questo ragazzo – dirà la signora Alpi a udienza conclusa – perché io e mio marito Giorgio ci siamo battuti per la sua innocenza. Lui era un capro espiatorio”. E poi aggiunge: “Sono molto stanca dopo 22 anni di battaglie e bugie. Avrei voluto che qualcuno ascoltasse il pubblico ministero e il capo della Digos che hanno interrogato Gelle e l’autista di Ilaria. Vorrei sapere come è andata, saper chi ha assoldato Gelle e sapere perché lui non abbia mai messo un piede in tribunale”.
Ventidue anni di attesa per rimanere con la consapevolezza che l’obiettivo di molti è stato quello di mettere tutto a tacere, sminuendo il lavoro di Ilaria in Somalia, tentando di far passare – di far ricordare – il duplice omicidio di Mogadiscio come “una rapina finita male”.
Ma non ci sono riusciti. Non ci riusciranno. Sono passati più di ventidue anni da quell’omicidio: sono molti, ma non per smettere di pretendere che si arrivi alla verità.

Tratto da: liberainformazione.org

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