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Già la settimana successiva, il palazzo di giustizia di Messina per certi versi era diventato un far west. Il 5 ottobre era stata trasmessa una puntata di Blu Notte di Carlo Lucarelli sulla mafia in provincia di Messina (e sugli omicidi di Graziella Campagna, Beppe Alfano e Matteo Bottari). Ne era scaturito un avvenimento inaudito: i muri di palazzo Piacentini erano stati tappezzati da manifesti dell’Anm (associazione nazionale magistrati) distrettuale che mi bollavano, con tanto di cognome, come mentitore: solo che, a proposito di menzogne, attribuivano a me parole dette in quella trasmissione da tutt’altro avvocato (in tutti questi anni più che solidale con Cassata e Canali). Non mi fu difficile capire che si approssimavano burrasche, ben mirate nei confronti miei (e delle altre quattro persone indicate nel testamento morale) ma soprattutto nei confronti della memoria di Adolfo. Di lì a poco ricevemmo notifica di ciò dalle pagine del settimanale messinese Centonove. A dire il vero, il 10 ottobre 2008 su quel giornale era comparsa una ricostruzione puntuale delle vicende di Adolfo, a firma della giornalista Manuela Modica (testimone nel processo concluso giovedì: da lei abbiamo appreso che, nel fare quel lavoro, era stata sollecitata dal suo capo, Enzo Basso, a interpellare Cassata e l’allora Procuratore generale ne aveva approfittato per intimarle di dare basso profilo al suicidio di Adolfo). Sennonché, nelle settimane successive la giornalista era stata sostituita da quel giornale nel trattare le questioni riguardanti, in qualunque modo, il sistema deviato barcellonese, dal collega Michele Schinella, e tutto era cambiato. Addirittura a maggio 2009 Schinella, su Centonove, era arrivato a infangare la memoria di Adolfo con un articolo calunnioso, più che oltraggioso. Dalle intercettazioni avviate nel giugno 2009 dalla Procura di Reggio Calabria (e personalmente dall’allora Procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto al tempo in quell’ufficio Federico Perrone Capano) avemmo, in epoca successiva, certezza che Schinella era già al tempo giornalista di fiducia di Canali (e dagli articoli succedutisi per anni constatammo che era di fiducia anche del mafioso Rosario Pio Cattafi e del solito Cassata). È un caso se quell’articolo di Schinella fa parte del diffamatorio dossier anonimo per il quale è stato definitivamente condannato Cassata? ​Nel frattempo era accaduto un fatto che verrebbe da dire miracoloso. Un pomeriggio Cettina, la dolcissima moglie di Adolfo, cercava di far passare il tempo davanti alla tv, sintonizzata su Rai2, quando vide e sentì lo scrittore Alfio Caruso che, per cercare di spiegare una certa irredimibilità della Sicilia, aveva accennato al suicidio di Adolfo Parmaliana. Cettina sapeva bene quanto Adolfo stimasse Alfio Caruso, i cui libri sulla mafia (“Da cosa nasce cosa” e “Perché non possiamo non dirci mafiosi”) campeggiavano in primo piano sugli scaffali della sua libreria. Fu così che Cettina decise di contattare Alfio Caruso. Gli telefonò e gli disse che l’archivio del marito era a disposizione dello scrittore, se avesse avuto interesse a raccontare la storia di Adolfo Parmaliana. Qui è bene ricordare che Adolfo Parmaliana era un antico militante comunista (come detto, fervente berlingueriano) e Alfio Caruso è un autentico conservatore. Sennonché, quello fra il docente di chimica e lo scrittore fu l’incontro virtuale fra due italiani perbene. Ne sortì il libro “Io che da morto vi parlo”, biografia di Adolfo Parmaliana scritta da Alfio Caruso e pubblicata da Longanesi. E proprio nel paese in cui, quando riguarda propri amici e compagni, ci si spertica in labiali campagne a sostegno della libertà di informazione e del diritto alla manifestazione del pensiero (dei propri amici e compagni), la sentenza di condanna pronunciata a carico di Cassata ha certificato che il capo della magistratura requirente di Messina nel 2009 confezionò (insieme a più di un complice, rimasto impunito) il dossier anonimo proprio come ultimo disperato tentativo di impedire la pubblicazione del libro di Alfio Caruso sulla vita e sulla morte di Adolfo Parmaliana. Cosicché, oltre all’Associazione nazionale magistrati (non pervenuta), per il danno d’immagine arrecato alla categoria dalla condotta delittuosa e ignominiosa del Procuratore generale di Messina, anche la federazione degli editori, la categoria dei giornalisti (al tempo Caruso, oltre che scrittore, era ancora giornalista, e di meritata fama, allievo prediletto di Indro Montanelli) e naturalmente quella degli scrittori avrebbero potuto (o forse dovuto?) costituirsi parte civili. Invece, state tranquilli, siamo pur sempre il paese di don Abbondio, oltre che degli appelli a favore dei diritti degli amici (e certe volte pure degli amici degli amici), e nessuna di quelle categorie batté ciglio. ​Ma Cassata, invero, le provò tutte per ostacolare la pubblicazione del libro su Adolfo. Già a marzo 2009, in effetti, era diventata pubblica la notizia che Alfio Caruso stava lavorando alla redazione di quell’opera. Qualche settimana dopo Cassata si era rivolto al proprio amico scrittore Melo Freni, chiedendogli di intervenire su Caruso. Freni gli suggerì, per aver maggiori possibilità di raggiungere l’obiettivo, di parlare con il noto scrittore e giornalista agrigentino Matteo Collura, conosciuto da Cassata ma soprattutto grande amico di Caruso. Detto, fatto, ma il tentativo fu respinto con perdite: Collura, ben consapevole del carattere del suo amico Alfio Caruso, restio a ogni tentativo di accomodamento e tanto più di censura o di autocensura, buggerò Cassata dicendogli che il libro era ormai bell’e finito e pronto ad andare in stampa. Tutto falso, naturalmente: l’uscita del libro era prevista, e poi così fu, per il 19 novembre 2009. Cassata recepì chiaro e tondo che quello di Collura era stato un rifiuto. Si mise il cuore in pace, secondo voi? Manco per sogno.

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