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tobagi walter figlio lucadi Luca Tobagi
Il vocabolo chiave è «persona», perché la società è fatta di individui, mentre «politica» esprime il senso di responsabilità nel capire e riportare in maniera ponderata la realtàIl tema dell’accesso e del diritto al lavoro era inscindibile da «impegno» e «merito»

Oltre settecento articoli firmati in sette anni e dieci mesi al Corriere. Leggere la vasta produzione di Walter Tobagi nell’archivio digitale permette di trovare qualche parola utile per spiegarlo a ragazzi che crescono. La prima è «politica». L’immagine di mio padre è sempre stata condizionata dal suo assassinio da parte di un gruppo di terroristi di sinistra. Si è occupato in profondità di terrorismo con pezzi rigorosi e lucidi, ma la preponderanza degli articoli di politica è stata sempre netta. La politica è stata lo sfondo per tutti gli altri temi di cui si è occupato e il campo per affinare il metodo di coniugare la presentazione accurata e l’analisi dei fatti con l’esposizione delle sue opinioni personali, mantenendo distinti i due aspetti. La sua volontà di osservare e raccontare, capire e spiegare, anche di fronte alle evidenze più confuse o brutali, è sempre stata visibile, come pure il desiderio democratico di aprirsi all’ascolto e al dialogo con tutti.

Il senso di responsabilità sociale di mio padre aveva dimensione pubblica, ma era esercitato nella forma privata del suo impegno. Le sue opinioni non dovevano intaccarne professionalità e indipendenza intellettuale, il suo patrimonio più grande, né interferire con la capacità di svolgere il suo lavoro in modo credibile e scrupoloso. Questo è stato il modo «politico» di spendere i suoi talenti: non proclami, toni urlati, immagine, schieramento da tifoso, ma lavoro tenace, costante, di qualità, e decisioni personali anche costose, prese con discrezione, quando è stato necessario. Espressioni vaghe, come «società civile» (usata due volte nel 1980, e prima solo una in contrapposizione al dittatore Franco e una nel virgolettato di un intervistato) o «valori non negoziabili», non hanno trovato spazio nei suoi articoli. È dai comportamenti che si distinguono la civiltà e i valori. Messaggio valido anche oggi che lo stile è molto diverso da quello che mio padre sceglierebbe e l’uso delle parole, in un contesto di tensioni diffuse, meriterebbe la stessa ponderazione che lui aveva riservato, nel 1979, a ciò che purtroppo non rimase «un futile gioco di salotto».

«Impegno» e «merito». Dei temi economici, del lavoro, del sindacato, mio padre ha scritto molto. Ha anche assunto incarichi e iniziative per rappresentare i giornalisti. Proprio per l’importanza che attribuiva al lavoro e alle vertenze che lo riguardavano, cercava di darne resoconti e valutazioni obiettivi. «Gli scioperi di pochi che colpiscono molti» è un titolo che ha guadagnato attualità nei suoi 33 anni di vita. Il tema dell’accesso e del diritto al lavoro era per lui inscindibile da impegno, merito e competenza. Rimane per me memorabile, in un articolo del 1975 di denuncia dello scandalo delle raccomandazioni, l’immagine di una scheda ministeriale per archiviare le segnalazioni.

La parola centrale, però, è «persona». Mio padre ne intervistò moltissime, di ogni estrazione sociale e posizione politica. Tali ritratti riflettono la convinzione della centralità degli individui, di scelte, impegno e responsabilità dei singoli: la società è importante e sono le persone, con le proprie azioni, a farla. Le pressioni esterne non giustificano, da sole, i comportamenti individuali. Per capire la società, quindi, doveva conoscere le persone, dal leader politico allo studente, dall’operaio al capitano d’industria. Mi ha sempre colpito la «storia di una donna che faceva i panettoni»: problemi e sentimenti quotidiani, diretti, ineludibili, come il «chi è dunque che ci ha colpa?» di manzoniana memoria. Se mio padre fosse vivo, oggi, esorterebbe i miei figli e i loro coetanei a guardarsi attorno con occhi curiosi. A ragionare sul mondo e spiegare, almeno a se stessi, anche ciò che appare più difficile da capire, sapendo che capire non significa accettare. Ad agire per il bene, con un impegno serio, senza clamore. A far emergere quell’umanità che sta dentro di noi e intorno a noi e che proprio per questo, forse, è più difficile portare in superficie.

corriere.it

In foto: il 28 maggio 1980, Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera (nella foto con il figlio Luca), venne assassinato a Milano, vicino alla sua abitazione, da un commando di terroristi.

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