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fava elena c giorgio barbagallodi Antonio Roccuzzo
Elena Fava era una donna forte e sorridente e ora è morta, ma sorride ancora. Lei non sorrideva a tutti perché il sorriso e la felicità sono cose, come fiducia e stima e risentimento, che bisogna saper concedere e tocca sempre verificare che chi li ottiene ne resti degno. Questo pensava Elena . Era una donna coerente. E’ morta così, a 65 anni, sorridente e silenziosa: anche il dolore – pubblico o privato – è una cosa seria, come le idee, e non vale la pena di farne uno “spettacolo”, se no diventa finto perché il dolore cammina dentro di te e sei tu che devi portarne il peso. Elena non ha detto nulla, se non ai parenti, di quel male che da un anno la corrodeva.

Era più grande di noi che, da ragazzi, fummo scelti da suo padre Giuseppe, detto Pippo, per entrare a far parte della redazione della rivista “I Siciliani”. Lei era grande, aveva una famiglia e faceva un mestiere serio: medico in un pronto soccorso, ematologa, nello stesso ospedale nel quale Pippo Fava, 32 anni fa, una sera fu portato morto dopo che la mafia gli sparò cinque colpi di pistola, fuori dal teatro Stabile, dove era andato a prendere una delle figlie di Elena che faceva la comparsa in uno spettacolo. A Catania, 5 gennaio 1984 e a Catania Elena è rimasta, per tre decenni, lavorando, facendo il medico e difendendo – spesso da sola – la memoria di Giuseppe Fava, nome orgogliosamente scomodo per i potenti locali, sorridendo senza derogare mai, senza cedimenti, ma sorridendo.

Negli anni del giornale Elena ci aveva seguito con riserbo, partecipazione e con quello stesso sorriso positivo carico di speranza. Per me era come una sorella grande, la sorella che non ho mai avuto. Ma in più avevo imparato a capire il suo sorriso e la sua durezza apparente. Ci siamo ritrovati dopo, dopo gli spari della sera del 5 gennaio, negli anni dell’impegno e della Fondazione. Ma con calma, senza toni sopra le righe, come impone il decoro di una battaglia ideale, privata e pubblica, contro le mafie e la mafia a Catania. Parlando anche di noi, io dei miei figli, lei dei suoi. Da adulti e amici, come facevamo con suo padre, quando c’era.

Elena aveva un’idea concreta di questa battaglia antimafia: per esempio, Elena sapeva che non è ammissibile che uno Stato civile non dia il giusto spazio alla memoria degli uomini uccisi per difendere i principi della convivenza civile, i diritti di tutti. Questa memoria, nel caso di Elena la memoria di Pippo Fava, lei l’ha custodita in un garage. Quello di casa sua, in un residence sulla strada che da Catania sale verso l’Etna. Foto, manoscritti, disegni.

Ecco i disegni di Pippo Fava sembravano autoritratti, ombre di persone vissute e osservate: lui li disegnava anche al giornale, perfino mentre scriveva o parlava con noi. Anche Elena aveva le sembianze, sembrava uscita da uno di quegli schizzi, con quel viso scavato come se fosse intagliato nel legno. Nel garage di casa, Elena ha custodito per tre decenni la memoria concreta di “un uomo” scomodo. Idee da custodire per raccontarle ai ragazzi nelle scuole e dovunque la chiamassero a farlo.

Nessuna istituzione le aveva “donato” una stanza dove catalogarli, raccontarli ed esporli: nessun sindaco, ministro o sponsor. Lei non frequentava salotti. Non per snobismo ma per sano distacco. Se la memoria di Fava è stata ignorata per tre decenni, perché fidarsi? Con un sorriso, due anni fa, me lo disse mentre prendevamo un caffè in viale Trastevere, a Roma, vicino al ministero dell’Istruzione. Il Miur aveva offerto aiuto, prima istituzione a farlo, una scuola intanto dove eleggere la sede provvisoria per la Fondazione Fava. E poi chissà, forse sarebbe arrivato un bene confiscato alla mafia che aveva ucciso suo padre.“Io aspetto a trasferire manoscritti e disegni di papà”, mi aveva detto. “Non si sa mai… che ci ripensino”. E aveva sorriso. Aveva ragione: tutto è ancora in quel garage dove lei li ha custoditi.

Chissà che prima o poi qualcuno non si accorga di quella memoria, custodita dal sorriso di una donna forte che ora non c’è più. Ma no, Elena c’è perché sa che di quei disegni e di quella storia continueremo a parlare anche fuori e lontano dal suo garage.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

Foto © Giorgio Barbagallo

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