di Liana Milella
Il codice di procedura penale è lì, consultabile da tutti. Articolo 530, 4 articoli. Il secondo recita: "Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato". Il primo articolo, invece, suona in questo modo: "Se il fatto non sussiste, se l'imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato...".
Vorrà dire qualcosa se il giudice di Palermo che ha assolto Calogero Mannino lo ha fatto citando il secondo, e non il primo comma, dell'articolo 530. Il fatto, cioè la trattativa Stato-Mafia, non è stato "negato".
Dopodiché, questo è un primo pronunciamento dei giudici. Finché non sarà negato ai pm la possibilità di fare appello di fronte a un'assoluzione, i procuratori di Palermo potranno presentarlo e hanno il diritto di annunciarlo.
Comprensibile, sul piano umano, l'entusiasmo di Mannino, ma del tutto condivisibile la reazione del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che invita alla moderazione visto che si tratta di una assoluzione "peraltro in primo grado e non con formula piena". Ipotizzare di denunciare al Csm chi ha fatto questo processo, lanciare accuse di accanimento dei pm, equivale in terra di mafia a un brutto messaggio. Inaccettabile soprattutto se diretto contro chi, come Nino Di Matteo, gira con un lince per proteggersi dalle concrete minacce di morte di Cosa nostra. Chi, come Mannino, ha avuto paura di essere ucciso dalla mafia, dovrebbe evitare di assumersi la responsabilità di indicare bersagli, pur nella soddisfazione di questa giornata.
Tratto da: milella.blogautore.repubblica.it