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battaglia c shobhaIntervista a Letizia Battaglia
di Attilio Bolzoni - 16 novembre 2014

Perché ti sei sposata a sedici anni? «Perché ho incontrato un uomo che mi amava e mi offriva il mondo». Torna indietro con i pensieri e con i sensi, sul suo viso scivolano allegrie, pene, qualche tormento. Un sorriso tenero svela però che si è acquietata, che ha capito che è andata come doveva andare. Se poi sia stata lei a prendersi da sola il mondo o il mondo a prendersi lei, a questo punto della sua esistenza poco le importa mentre è al riparo nella sua casa di Palermo. Un palazzo che sa molto di famiglia. Il suo appartamento è al secondo piano. Sullo stesso pianerottolo abita il fratello Salvatore, verso mezzogiorno gli odori delle due cucine si confondono. All’attico ci sta sua figlia Patrizia. Al superattico l’altra figlia Angela, che dopo un viaggio in India è diventata Shobha. Per raccontare se stessa Letizia Battaglia non sa da che parte cominciare.

«Dall’inizio o dalla fine? Da quando ero bambina o da quando sono andata a vivere a Parigi, dai miei nipotini o dalle mie foto?». Una, bellissima, è alle sue spalle. Milano, 1971. Un uomo con la faccia coperta da dita nodose. «È Pier Paolo Pasolini al circolo Turati, quel giorno c’erano anche Dario Fo e Mario Capanna». Milano? «Sì, sono stata lì tre anni, ma forse è meglio iniziare dal principio, quando sono nata...».
Pensa all’inizio e ricomincia dalla fine: «Adesso mi sento forte nella testa e nelle mie idee, ho avuto tanto e non voglio più nulla».
Letizia è fatta così, generosamente sottosopra. E così: «Adesso posso non avere più pudori: io sono una maestra di fotografia». E così: «Io non sono una fotografa, la fotografia è solo una parte di me».
Dobbiamo fermarci davanti a un caffè, ricordare per un po’ la nostra Palermo e mettere in ordine uno dietro l’altro momenti e sentimenti.
A marzo Letizia Battaglia compirà ottant’anni. «Sono nata nel 1935, mio padre faceva il marittimo, ci spostavamo da una città all’altra, Palermo, Trieste, Civitavecchia, Napoli, ancora Palermo...». La memoria pesca lontano. Alla guerra, i bombardamenti. «Ho negli occhi ancora l’immagine della nostra casa sventrata a Civitavecchia e quella di un cane che trascinava, chissà dove, la manica di una giacca con dentro il braccio di qualcuno».
Il primo ritorno in Sicilia. Le elementari alle Ancelle, le alunne con i guanti, gli inchini, i rampolli della grassa borghesia e dell’aristocrazia siciliana. «Fra i banchi ho conosciuto tutta la Palermo bene, io non avevo la divisa fatta dal sarto ma quella che dava la scuola... Un giorno venne una vecchia nobile a casa mia e le dissi “Mamma arriva, intanto si accomodi in salotto”, lei mi guardò con disprezzo e rispose: “Salotto? Mia cara, questo non è un salotto”... non me le sono mai dimenticate le parole e gli occhi di quella donna».
Le prime ansie, i primi slanci, le prime ribellioni. È adolescente ed è già donna. L’amore si chiama Franco. È incantata, nel 1951 si sposa. E nonostante l’età, lui — che di anni ne ha sette in più — segna come su una mappa il percorso della vita di Letizia. «Sarei dovuta diventare una delle tante belle ed eleganti signore di Palermo». Sognava altro. Per fortuna arrivano le figlie. Prima Cinzia, poi Angela e Patrizia. Il matrimonio è come una prigione. E dura tanto, troppo. Letizia se ne va. «Se l’avessi fatto prima avrei tolto infelicità a me e a mio marito... Franco non c’è più da sei anni, l’ho ritrovato, fino all’ultimo giorno sono stata vicina a lui». Nel 1971 — dopo una lunga analisi — lascia la Sicilia per Milano. Comincia come cronista, collabora prima con Le Ore e poi con Abc, settimanali anticonformisti e anticlericali molto diffusi in quegli anni, servizi di politica e scatti molto osé per l’epoca. Con il “pezzo” le chiedevano sempre le foto, altrimenti non glielo pubblicavano. Letizia diventa Letizia: fotografa.
E dopo il primo amore abbandonato a Palermo, trova il secondo amore. Santi, anche lui fotografo.
Letizia è curiosa, avida di vita. È in quei mesi che conosce l’altra Milano. E Pasolini. «Ce l’avevo già dentro, ma da quel momento non me lo sono fatto scappare più... qualche mese prima avevo anche incontrato a Venezia Ezra Pound... piangevo...».
Da Palermo quelli del quotidiano L’Ora, che giù tutti chiamavano il L’Ora, prima chiedono a lei e a Santi qualche articolo sui siciliani diventati “milanesi”, poi il direttore Vittorio Nisticò li vuole in redazione. Scendono. E Letizia è ancora nella sua Sicilia. «Ma già allora non c’era una sola Letizia». Fa volontariato alla “Real Casa dei Matti”, l’ospedale psichiatrico di via Pindemonte. Fa scuola di teatro al Teatès di Michele Perriera, fa foto che porta sulle scrivanie di talentuosi giornalisti come Salvo Licata, Mario Genco, Nino Sofia. E si butta nella mischia siciliana. Sono gli anni in cui il potere politico e criminale di Palermo sta cambiando, i primi cadaveri eccellenti, la guerra di mafia che si annuncia alla periferia dell’impero. Con la sua gonna svolazzante e con i suoi zoccoli, Letizia arriva sempre per prima sulla scena del delitto. È testimone oculare nella Palermo più cupa, le sue foto fanno il giro del mondo. E c’è un nuovo amore ancora. Anche lui si chiama Franco. E anche lui fa il fotografo. Compagno per lunghissimi anni. Quando finisce una storia privata ne comincia una pubblica: la “primavera” palermitana, il vento che spazza via i notabili invischiati con i boss, le paure e le speranze di una città. Letizia viene nominata dal sindaco Orlando assessore comunale, delega alla Vivibilità Urbana. Porta sempre quelle sue gonne colorate e gli zoccoli. «È stato il periodo più bello della mia vita, più bello della fotografia, mi sentivo cittadina e quindi più che solo una fotografa. Ma io non facevo politica, io amministravo, facevo cose concrete, vedevo un angolo sporco e facevo sistemare una pianta ». Dopo la giunta “colorata” di Leoluca Orlando, l’elezione alla Regione Siciliana. «Esperienza inutile, non facevo niente, non mi facevano sapere niente».
Poi le stragi. Prima Falcone e Borsellino, un anno dopo don Pino Puglisi. Letizia non vuole fotografare più i morti, gli amici morti. Parte per Parigi. È depressa, per lunghi mesi passa le sue giornate al tavolino di un bistrò. «Senza parlare, senza bere perché io non bevo nulla». Solo una grande solitudine. Lei dentro un gorgo e gli altri che la onorano. Le arrivano i premi più prestigiosi. Dalla Francia, dalla Germania, da Londra. È anche la prima donna europea a vincere negli Stati Uniti la borsa Eugene Smith. La consacrazione. Torna un’altra volta a Palermo. Ma da quel momento non farà più una mostra nella sua città. «Sono passati venticinque anni...».
Letizia è impastata con Palermo, la ama e la patisce, prova rabbia ma non può farne a meno. «Mi emoziono sempre camminando nei vicoli... una statua della Madonna, un Gesù, gli odori, una finestra sbilenca...».
Sta molto a casa. Con il cane Pippo che azzanna le sue scarpe e con il telefono che squilla sempre. Amici vicini e lontani, parenti. «Come le tartarughe mi sono ricostruita una corazza e ho ricostruito la famiglia. L’amore c’era per tutti ma in qualche modo si era disperso». Parla dei suoi fratelli, quelli che ci sono ancora e quelli che non ci sono più. E di Massimiliano, Gianfranco, Francesca, Matteo e Marta, i suoi cinque nipoti. E delle sue «splendide figlie». Fotografa ancora. Fotografa le bambine. Ce ne sono bellissime, raccolte con cura e scelte per Diario , il suo ultimo libro. «Le cerco, le rincorro, in loro mi ritrovo io stessa bambina». Quando va in giro per Palermo la fermano, l’abbracciano. «Quando ero deputata alla Regione tutti mi chiamavano onorevole e io alzavo il dito medio della mano e rispondevo “Tié”. Gli onorevoli di solito vengono chiamati onorevoli anche quando non sono più in carica, a me invece continuano a salutarmi sempre nello stesso modo: “Ciao Letizia”...». Ciao Letizia.

Tratto da:La Repubblica

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