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dalla-chiesa-nando-webIl 3 settembre ricorre l’anniversario della morte di Dalla Chiesa: il figlio dell’allora prefetto si chiede se il tempo trascorso abbia sedimentato una cultura antimafiosa. E rammenta il contesto dell’assassinio.
di Nando Dalla Chiesa - 31 agosto 2012
Bisogna chiedere agli uomini di chiesa di stare con il Vangelo contro chi calpesta la dignità dell’uomo. Bisogna che la scuola educhi già da ragazzini a rifiutare la cultura mafiosa.

Bisogna che i cittadini capiscano di doversi schierare con i carabinieri e i poliziotti invece di chiamarli sbirri. Bisogna sapersi unire al di sopra delle differenze politiche, anzi bisogna mettere da parte le bandiere di partito. Bisogna che contro la mafia si mobiliti la cultura: che si scrivano libri, si facciano film, perfino canzoni. Bisogna denunciare le collusioni politiche nome e cognome senza guardare in faccia nessuno. Bisogna rompere l’omertà mafiosa, dare ai mafiosi che vogliono parlare gli stessi benefici previsti per i terroristi. Bisogna che quando vanno a processo i mafiosi vengano condannati invece di essere sempre assolti per insufficienza di prove, altrimenti lo Stato non sarà credibile. Bisogna che vengano colpiti nelle loro fortune economiche, che gli si possano sequestrare i beni ottenuti con il sangue altrui. Bisogna combatterli con uno Stato organizzato, capace di coordinare le indagini, mica possono essere organizzati solamente loro. Bisogna che ci sia un movimento antimafia stabile, che non dipenda dalle emozioni del momento, loro ci sono sempre. Bisogna avere memoria degli eroi, perché tutto quel che è stato fatto abbia un senso per chi verrà….
Bisogna, bisogna, bisogna. Quante volte abbiamo usato questo verbo nel nostro cercare la strada. E spesso quel che “bisognava” è stato faticosamente fatto. È lì, sotto gli occhi di tutti. Quando lo si vede, quando lo si contempla volgendo lo sguardo all’indietro, si capisce, allora sì, quanti sono trent’anni.
Generale, perché non viene a parlare nella nostra scuola? Questo generale con la sua idea di combattere la mafia porterà il disordine, le rapine, le nostre mogli non potranno più uscire con le pellicce. Mentre a Roma si decide sul da farsi Sagunto viene espugnata, e questa volta Sagunto è Palermo, povera la nostra Palermo! Qui è morta la speranza dei palermitani onesti.
Trent’anni. Chissà chi si ricorda queste frasi. Chissà chi sa metterle al punto di partenza di una rivolta civile che sarebbe andata avanti coinvolgendo tutto il paese e avrebbe trovato nuovo impulso con le stragi terribili di dieci anni dopo. Ma altre volte i trent’anni sembrano niente, sembrano che tutto sia accaduto ieri. Non solo per le ferite personali, quelle risbucano fuori quando nemmeno te ne accorgi, basta niente, basta sapere che deve intervenire un cittadino anonimo per chiedere con un suo cartello di non mettere la spazzatura sotto la lapide di via Carini, e ti sembra di nuovo quel venerdì sera, 3 settembre 1982.
Ma anche perché non possono essere davvero passati trent’anni se alcuni insegnamenti del generale venuto dal nord a fare il prefetto di Palermo vengono ancora così irrisi e disprezzati nei fatti. Dobbiamo dare ai cittadini sotto forma di diritti ciò che la mafia dà loro sotto forma di favori. Finché una tessera di partito conterà più dello Stato non riusciremo mai a sconfiggere la mafia. E il non frequentare i potenti amici dei clan, e il prestigio necessario in terra di mafia a chi vi rappresenta lo Stato. Prestigio ottenuto con la rettitudine dei propri comportamenti. Ma anche prestigio riconosciuto da uno Stato che non può abbandonare i suoi rappresentanti in trincea. Principi ovvi, cristallini.
Ma davvero trent’anni non sono bastati a capirli, a farli rigorosamente propri? Di quanto tempo hanno mai bisogno uno Stato, un popolo, una società, per
assimilare principi tanto elementari? Questo sconforta, amareggia, anche chi - come me - è convinto che la mafia da allora a oggi sia stata resa più debole, che abbia preso, a prezzo di enormi sacrifici tra gli onesti, legnate un giorno inimmaginabili. Perché in tanti hanno fatto il loro dovere, e spesso di più. Tanti magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, insegnanti, studenti, preti, sindacalisti, intellettuali, cittadini senza potere, donne di associazioni, familiari di vittime, professionisti, imprenditori, giornalisti.
Ma se quei principi non sono ancora obbligo morale per la politica e per le istituzioni, che pure in trent’anni hanno conosciuto la caduta del Muro e l’elezione diretta dei sindaci, la fine dei vecchi partiti e l’euro, vuol dire che c’è un postulato immobile nella testa di chi fa politica generazione dopo generazione. Ed è che della mafia, in fondo, non bisogna fare una priorità seria, da sangue che ti ribolle nelle vene. E che magari, più che un problema, la mafia è una risorsa. Ottimismo, memoria imbalsamata.
Ma quella memoria è viva e parla a tutti e tutti interroga, perché il delitto fu politico, spudoratamente politico, anche se pur di non ammetterlo si volle andare a cercarne le origini nelle carte segrete di Moro anziché in quello che davanti a tutti era successo per quattro mesi. Chissà quanti sono trent’anni. Se consentono di ricordare la solitudine di un uomo. Di ricordare perché venne ucciso. Di ricordare nei comportamenti i suoi insegnamenti e i suoi principi.

Tratto da:
La Repubblica

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