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ingroia-antonio-web2di Antonio Ingroia - 24 agosto 2012
Perché attaccare il Quirinale? Questa domanda campeggia in tanti autorevoli commenti pubblicati negli ultimi giorni su tutti i principali giornali italiani, in riferimento alle polemiche che si sono scatenate a margine della chiusura delle indagini nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia. Ma guardando la vicenda da un altro punto di vista, potremmo porre una domanda che appare speculare: perché attaccare la Procura di Palermo?

Infatti, nel commentare gli attacchi al Quirinale è tutto un affannarsi e succedersi di analisi politiche e di difese d'ufficio della prima carica dello Stato, considerata, a ragione, il punto di stabilità e di resistenza istituzionale, il perno che ha consentito di scongiurare nel recente passato gravi squilibri e sconquassi finalizzati a ridisegnare l'asseto dei poteri costituzionali ed in particolare a respingere i tentativi di ristrutturarne i rapporti di forza in favore del potere esecutivo a discapito di ogni potere di controllo, a cominciare dalla magistratura e dall'informazione. Ed ecco perché, in questa lettura, ogni critica viene interpretata come un assalto al Quirinale. Ma è altrettanto vero, d'altra parte, che la difesa del Quirinale non sempre sembra ispirata da comprensibili ragioni di tenuta del quadro politico-istituzionale, perché certi sostegni a volte appaiono piuttosto “interessati”. Al punto che l'impressione è che non pochi difendano il Quirinale solo per attaccare la Procura di Palermo. E che quest'ultima sia attaccata da chi vuole fermare certe indagini o condizionarne l'esito, perché i pm avrebbero osato troppo, spingendo la verifica del giudizio penale laddove nessuno aveva osato finora arrivare. Al limite delle colonne d'Ercole del diritto. Ai confini del discrimine fra verificabili ragioni del diritto e inconoscibili ragioni di Stato. Una questione di fondo della convivenza democratica in uno Stato di diritto. Ennesimo paradosso italiano di una democrazia dimezzata.
Mi chiedo allora su quali basi si possa costruire un'Italia diversa, che abbia le energie e la bussola per orientare diversamente il proprio destino. Serve la storia del nostro Paese, storia gloriosa, ma spesso dimenticata? Serve la memoria in un'Italia prevalentemente smemorata, e a lungo dominata dall'incoscienza della rimozione perenne?
Dobbiamo augurarci di sì. Per parte mia, ricordo la lezione, spesso dimenticata nei fatti anche se assai commemorata a parole, di maestri come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Maestri di molti magistrati, ma anche di tanti cittadini, che hanno insegnato virtù dimenticate. Fra queste, un senso dello Stato così radicato ed integrale, un attaccamento alle istituzioni definibile “ideologico”, e che quindi poteva apparire, a volte, parossistico, che li induceva a predicare una fiducia nelle istituzioni in quanto tali, che rasentava l'ingenuità- Una “fiducia ingenua” che probabilmente ha indotto un uomo come Paolo Borsellino a sacrificarsi nel nome di uno Stato che, intanto, in nome di una presunta ragion di Stato, nell'intraprendere una spericolata trattativa con la mafia, lo isolava, così esponendolo alla vendetta dei mafiosi. A quella fiducia nelle istituzioni e fra istituzioni ci si dovrebbe tornare ad ispirarsi tutti nel circuito istituzionale, scongiurando il rischio che il clima conflittuale della contingenza politica possa contagiare le istituzioni stesse, specie quelle meno “politiche”.
Se permangono chance per recuperare gli insegnamenti più nobili del nostro patrimonio etico-morale, a cominciare da quelli di Falcone e Borsellino, abbiamo tutto il dovere di provare a creare un clima di confronto che, pur nel riconoscimento del diritto di critica, rispetti le istituzioni in quanto tali ed i suoi rappresentanti, scongiurano il rischio che la polemica politica possa invadere luoghi istituzionali che più dovrebbero esserne immuni. Per evitare che il conflitto diventi la cifra stilistica dei rapporti tra le istituzioni. Per contribuire, ciascuno per la propria parte, ad un passo in avanti verso la verità sulle stagioni più buie e drammatiche della nostra storia.

Tratto da: L'Unità

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