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caselli-gian-carlo-web2Caselli: non pretendiamo di essere avvolti nel tricolore, ma si rispettino i risultati straordinari ottenuti
di Liana Milella - 20 agosto 2012

Roma. Gian Carlo Caselli difende la procura di Palermo, il lavoro di oggi e di ieri. E dice: “Noi abbiamo salvato l’Italia”.

Inchiesta sulla trattativa Stato- mafia. In tanti sono convinti che potrà finire nel nulla come altre in precedenza.
«Questa teoria fa a pugni con la realtà. Sono stato a capo di quella procura subito dopo le stragi del ‘92 per quasi sette anni. I risultati ottenuti, dati alla mano, sono questi: mafiosi (latitanti e non) arrestati in quantità industriale, come mai accaduto né prima né dopo. Una slavina di pentiti, una vera diserzione di massa, perché noi dimostravamo di voler fare sul serio ».

Ma non è forse vero che la gestione dei pentiti è stata contraddittoria?
«Finché i collaboratori parlano di mafiosi di strada va tutto bene, quando invece raccontano di imputati eccellenti allora diventano roba di scarto. È la storia costante dell’antimafia. Tant’è vero che lo stesso Falcone fu accusato di un uso spregiudicato dei pentiti. Dissero perfino che lui, un maniaco delle regole, portava i cannoli a Buscetta, all’evidente scopo di insinuare che volesse favorire un rapporto non corretto».

Lei difende comunque i pentiti?
«Anche grazie a loro, ma soprattutto per il lavoro delle forze dell’ordine, ho potuto contare condanne a 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Ho assistito al sequestro di 10mila miliardi di vecchie lire di beni mafiosi, gettando le basi di quella che
oggi è diventata una vera e propria impresa che riempie le casse dello Stato. Ho visto scoprire moltissimi arsenali zeppi di armi. Così è stato fermato l’attacco criminale di Cosa nostra allo Stato».

Non è forse vero che ci sono state anche tante assoluzioni? Cito Carnevale e Mannino.
«L’uno e l’altro sono stati condannati in appello e poi assolti anche in forze di alcuni mutamenti della giurisprudenza della Cassazione. Nulla da dire se non che si è trattato di casi estremamente controversi sul piano del diritto, assai meno in fatto, tant’è vero che recentemente si è letto che la Corte d’appello di Palermo ha respinto una richiesta di risarcimento di Mannino per ingiusta detenzione motivando che il soggetto aveva dato causa ai fatti
messi alla base del processo».

Processi politici, da Andreotti a Dell’Utri. Tante energie per risultati contraddittori?
«In generale, parlare di esiti fallimentari è fare disinformazione. Perché la bontà di tutte le inchieste è sempre stata avallata dal gip. Poi ci sono state ora condanne ora assoluzioni, com’è fisiologico, perché solo sotto le dittature l’accusa ha sempre ragione. Comunque, senza eccezioni, anche le sentenze di assoluzione hanno ritenuto provati intrecci torbidi tra politici, imprenditori e mafiosi. La procura non si è mai inventata niente. L’esempio più clamoroso è costituito proprio dai casi Andreotti e Dell’Utri, entrambi riconosciuti penalmente responsabili di associazione con Cosa nostra, il primo fino al 1980, il secondo
(indicato come mediatore di Berlusconi) almeno fino al 1978, da due sentenze della Cassazione».

Rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«Sono risultati straordinari unici al mondo. Abbiamo contribuito, insieme ad altri, a salvare l’Italia. Non pretendiamo di essere pensati avvolti nel tricolore. Certamente possiamo anche essere criticati. Ci mancherebbe. Ma sempre nel rispetto della verità che emerge dai dati di fatto».

Ammetterà che a Caltanissetta l’aver assecondato il presunto pentito Scarantino ha favorito il depistaggio?
«All’errore compiuto ha posto riparo sempre la stessa procura nella sua attuale composizione».

Tratto da: La Repubblica

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