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ingroia-antonio-web7di Antonio Ingroia – 17 agosto 2012
La chiusura degli stabilimenti Ilva per effetto di un sequestro disposto dalla magistratura ripropone, dietro le apparenze di una vicenda dai contorni certamente drammatici, gli schemi della questione irrisolta dei rapporti tra politica e magistratura. Nel caso in questione, come a volte accade, sono venuti in conflitto interessi e beni giuridici ma tutti meritevoli di tutela.

Di qua il diritto alla salute, messo a grave rischio dagli effetti inquinanti di certe produzioni industriali; di là vari interessi economici, compreso il diritto al lavoro, minacciati dalla chiusura degli stabilimenti inquinanti.
Quando un diritto deve essere sacrificato, va operato un equilibrato bilanciamento di interessi. Ed è proprio quello che ha fatto la magistratura tarantina che, dopo vari tentativi di soluzioni alternative risultate infruttuose, anche e soprattutto a causa dell'assenza di una politica che facesse la sua parte, è giunta all'inevitabile conclusione di far prevalere il diritto alla salute cui la Costituzione attribuisce espressamente rango di “diritto fondamentale”.
Ma ecco che, dopo l'inevitabile provvedimento giudiziario traumatico, è tutto uno stracciarsi di vesti da parte della politica che, a danno fatto, minaccia l'ennesimo conflitto di attribuzione contro la magistratura accusata (ancora!) di invasione di campo, stavolta nei confronti di una non meglio precisata lesione delle prerogative governative di esercizio del “potere di fare politica industriale”. Il tutto arricchito dal solito contorno di denigrazione mediatica del malcapitato di turno, leggasi magistrato autonomo e indipendente, questa volta un Gip tutt'altro che avvezzo ai riflettori ed alle prime pagine dei giornali, e quindi certamente non accusabile di protagonismo politico-mediatico (ed ecco allora che, non potendo funzionare la denigrazione politica, scatta l'insulto personale, del tutto gratuito e descriminatorio).
Lo schema, seppur logoro, viene ripetuto eguale a se stesso, attraverso alcuni ineludibili passaggi che vengono adattati alla situazione diversa, caso per caso. Primo passaggio: c'è un grave problema che andrebbe affrontato dalla politica. Una volta è la mafia, un'altra volta è la corruzione, stavolta è la salute dei cittadini e dei lavoratori esposti a gravissimi rischi, e oggi potremmo dire a compromissione certa dello stato di salute, come dimostrato dalle statistiche sulla mortalità per tumore dei lavoratori dell'Ilva. Di fronte a problematiche così enormi toccherebbe alla politica agire, non secondo la logica del conflitto, ma secondo criteri di prevenzione. Prevenire per non punire. Intervenire per contrastare mafia e corruzione con progetti coraggiosi di risanamento della società in tutte le sue articolazioni, mondo politico compreso, cooperando – se necessario – con la magistratura impegnata in difficili indagini per accertare la verità anche sulle vicende più scabrose della nostra storia. Nello stesso modo, elaborare politiche di radicale tutela della salute e dell'ambiente senza se, ma contemperandola con gli interessi economici nazionali e con il diritto al lavoro in un ambiente sano. Invece no. Dalla politica vengono solo silenzi e immobilismo conservatore. A parte qualche timido vagito riformistico, prevale l'accettazione dello status quo, delegando alla magistratura a fronteggiare le eventuali emergenze. Ma appena la magistratura interviene con inevitabile mano pesante, usando il cosiddetto “guanto di legno” del diritto penale, la reazione della politica si rivolge contro la magistratura, rea di invasione di campo. Una magistratura costretta invece ad adottare provvedimenti visti come eccessivi ed inopportuni da una politica dimentica che all'applicazione della legge penale sono, devono essere, estranei i criteri di opportunità, propri invece della politica.
Paradossi italiani. Ai quali se ne affianca un altro, ancor più grave, che rivela quanto sia rovesciata la realtà nel nostro Paese. Accade, infatti, che la politica, che dovrebbe essere il regno della prevenzione die conflitti, la sede dove si individuano le soluzioni che prevengano il giudiziario, manchi l'appuntamento col suo paradigma identitario per instaurare invece, a posteriori, dannosi conflitti con il potere giudiziario, doverosamente attivatosi quando il conflitto esplode, visto che è proprio alla magistratura che tocca la risoluzione dei conflitti. E al contrario, il ritardo della politica viene (solo apparentemente) compensato dalla politica stessa, in autotutela, sollevando conflitti contro la magistratura, a sua volta ripetutamente accusata di invasioni di campo. Una politica che crede così di riuscire ad autoassolversi agli occhi dei propri cittadini, elevando un conflitto dopo l'altro contro il potere giudiziario, all'interno di nuovi disegni egemonici ostili a quella vera separazione dei poteri su cui deve fondarsi uno Stato di diritto. Così continuando, mi pare fondato il timore che siamo rimasti dentro quel tunnel senza uscita dal quale sembrava fossimo venuti fuori appena qualche mese fa, quando si insediò fra grandi aspettative e speranze il governo Monti. 

Tratto da: L'Unità

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