di Giovanbattista Tona - 19 luglio 2012
Caro Paolo,
vent'anni fa avevo poco più di vent'anni e non avrei mai pensato di poterti dare del tu.
Se oggi lo faccio è perché non abbiamo il diritto di tenerti distante, nemmeno noi che non abbiamo avuto il tempo di diventare tuoi amici. Abbiamo anzi il dovere di sentirti uno di noi, abbiamo il dovere di esserti vicini e avere con il tuo esempio, con il tuo modo di lavorare, con il tuo modo di essere servitore dello Stato, una confidenza che sia pesante, che ci aggravi della responsabilità di essere tuoi colleghi e tuoi amici. Sapendo che, con la tua bonaria intransigenza, ci avresti consentito di essere tuoi amici e di considerarci tuoi colleghi solo se fossimo stati capaci del massimo e più incondizionato impegno.
Come sapevi fare tu.
Mentre tu, insieme a Falcone, stavi cambiando la storia di questo Paese, mentre stavate cambiando la magistratura, io facevo parte di una generazione che aveva visto la mafia diventare sempre più sanguinaria e tracotante dinanzi ad una società incapace talvolta non solo di contrastarla, ma addirittura di vederla.
Da adolescenti avevamo vissuto i meravigliosi anni “80, che erano quegli stessi anni in cui venivano uccisi dalla mafia magistrati, poliziotti, carabinieri, prefetti e politici.
Era la gente che ti moriva intorno, come poi hai detto tu quando spiegasti perché avevi deciso di occuparti di mafia.
Noi eravamo invece spettatori; eravamo troppo giovani forse per essere qualcosa di più, ma il nostro disagio era grande, visto che tanti altri vedevamo lì a fare da spettatori, anche se giovani non erano, anche se avevano delle responsabilità, anche se erano potenti.
E così cominciammo a capire che bisognava distinguersi, fare qualcosa, qualcosa che non poteva essere mai abbastanza.
Vedevamo nei magistrati e negli uomini delle forze dell'ordine, l'avanguardia di una società che non riusciva a svegliarsi nemmeno sotto i colpi di pistola e i boati delle autobombe, che già qui a Palermo si erano sentiti fin dagli anni “60.
Cominciammo allora ad imparare a fare bene gli spettatori, a distinguere tra i comportamenti cui assistevamo, a capire chi erano quelli che non capivano, quelli che non volevano capire, quelli che ad ogni costo volevano che non capissero nemmeno gli altri.
Tra questi molti oggi stanno sulle cattedre e spiegano con saggezza come si deve lottare la mafia e come si dovrebbero comportare i magistrati per fare bene la lotta alla mafia. E oggi quando li ascoltiamo ci sappiamo ricordare, di quando avevamo vent'anni e di quando, tu caro Paolo, facevi davvero la lotta alla mafia; ci sappiamo ricordare loro cosa dicevano, loro cosa pensavano. E, quando oggi sentiamo le loro lezioni, ci viene da chiederci se non sia necessario avere una storia, una storia fatta di fatti, una competenza e una credibilità, prima di impartire impartire insegnamenti.
Noi allora seguivamo il tuo lavoro, cercavamo le tue interviste e venivamo sempre a sentire i tuoi interventi pubblici, perché le tue parole squarciavano tanti veli che altri ponevano sui nostri occhi; così riuscivamo a capire qualcosa di più sulla mafia e sulle sue continue evoluzioni.
Sapevamo che non eri solo; sapevamo anche che eravate in pochi e che molti di più erano gli indifferenti, che davano forza a quelli che vi ostacolavano in buona o in mala fede.
Per tanto tempo ti avevamo guardato come uno dei componenti del pool, uno della squadra; poi piano piano fu come se l'occhio di bue della storia avesse puntato la luce solo su di te e su Giovanni Falcone.
Quando il 23 maggio del 1992 riuscirono ad uccidere Falcone nell'occhio di bue eri rimasto tu.
Dal giorno dopo tanti dicevano che il prossimo obiettivo potevi essere tu e tutti lo pensavano: anche quelli che non lo dicevano, anche quelli che avrebbero potuto fare qualcosa per evitare una seconda strage.
Affidandomi a quello che raccontavano gli esperti di mafia, io confidavo che dopo Falcone non avrebbero colpito anche te; due azioni così eclatanti, peraltro a distanza di poco tempo, alla mafia non potevano convenire. E in effetti la mafia così pareva che ragionasse. La mafia sì, ma talvolta la mafia non ragiona da sola, discute con altri e giunge a conclusioni diverse, o perché si convince da sola o perché la convincono offrendo qualche allettante prospettiva.
A seconda delle situazioni, la mafia cambia modo di ragionare ed applica delle regole diverse per esercitare la sua singolarissima prudenza strategica. Che talvolta significa fare una cosa imprudente perché può servire.
Tu lo sapevi che quello che era inconcepibile per gli esperti di mafia invece sarebbe successo. A tue spese.
Tu avevi capito tutto. Avevi capito più di quanto ancora noi, dopo venti anni, siamo riusciti a capire; più di quanto i magistrati che oggi indagano possono essere in condizioni di dimostrare in un processo.
Tu avevi capito tutto quello che non volevano dirti e che oggi in tanti non vogliono dire nemmeno a noi.
E non appena ne avresti avuto la possibilità avresti parlato, forse avresti anche urlato o forse no... ti saresti controllato per evitare che nella foga non si capisse quello che stavi dicendo; avresti invece raccontato lentamente, conficcando le parole nelle nostre orecchie come dei chiodi, e ci avresti detto quello che stava succedendo a questa terra di Sicilia e al nostro Paese.
Era imprudente per la mafia fare un'altra strage dopo 57 giorni, ma quanto più imprudente poteva essere rischiare di lasciarti fare, di lasciarti parlare, sapendo quanto eri franco, diretto, deciso e incontrollabile?
Quanto più imprudente poteva essere lasciarti in vita, quando le cose che ci avresti raccontato tu, per venti anni, e chissà per quanto altro tempo ancora, nessuno avrebbe avuto la voglia, l'interesse e il coraggio di raccontarcele.
Caro Paolo, nel 1992 ancora non sapevo se sarei mai riuscito ad entrare in magistratura. Se il Paese che tu hai servito fosse riuscito a salvarti, io mi sarei ritrovato ad essere tuo collega; magari avrei potuto avere la possibilità di lavorare con te e chissà quante cose avrei potuto imparare più di quante ne ho imparate.
Anche se le differenze tra te e un giovane magistrato come me in termini di carriera, di prestigio e di credibilità sarebbero state abissali, mi avresti imposto di darti del tu.
Ma non è solo questo il motivo per cui oggi mi sento di farlo; non è solo questione di confidenza. Il fatto è che, se ti vogliamo davvero portare rispetto, tu devi essere uno di noi e noi dobbiamo cercare di essere come te. Ti dobbiamo avere accanto in ogni momento, non solo oggi qui in via D’Amelio.
E tu stacci vicino; insegnaci la pazienza, la determinazione e la passione, suscita in noi lo spirito di sacrificio che tanto poco va di moda, facci lavorare al meglio con lo stesso modo scanzonato con cui lo facevi tu.
Tutto quello che siamo riusciti a fare, tutto quello che si potrà ancora fare, se lo faremo, sarà solo merito tuo.
Grazie di esserci stato in questa Palermo e in questa Italia, grazie di esserci ancora: vivo, determinato e inquieto… come vorresti che fossimo tutti noi.
Giovanbattista Tona