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ingroia-antonio-web6di Antonio Ingroia - 20 giugno 2012
In questi giorni ho letto con interesse e col massimo distacco possibile tutti i commenti dedicati ai vari risvolti legati all'indagine della Procura di Palermo sulla cosiddetta «trattativa» Stato-mafia dei primi anni '90. E ho il massimo rispetto di tutte le critiche, anche delle più aspre e radicali. Uno dei commenti che più mi ha impressionato è stato certamente quello di Giovanni Pellegrino, pubblicato ieri su l'Unità. Perché Pellegrino è un esperto uomo di legge, che ben conosce il sistema e il diritto penale italiano.

E perché è stato un investigatore di tanti misteri della nostra Repubblica, nelle sue funzioni di presidente di un'importante commissione parlamentare d'inchiesta sullo stragismo in Italia.
Ebbene, se una figura del genere giunge a certe conclusioni e ha determinate perplessità, vuol dire che sulla vicenda permangono tali equivoci comunicativi da far correre il rischio che la pubblica opinione, anche quella più avvertita, non possa farsi un'idea, e quindi formarsi un giudizio che siano fondati su una corretta informazione.
Come deve essere rispetto ad una vicenda, non solo giudiziaria, di tale impatto e interesse pubblico. Sicché, ritengo necessario, nei limiti consentiti dal doveroso riserbo investigativo su un procedimento in corso, alcuni chiarimenti. Dice Pellegrino, come già un illustre giurista e mio maestro di diritto penale come Giovanni Fiandaca, che trattare con la mafia non è di per sé un illecito. Sono d'accordo. Del resto, sia chiaro che nessun reato di «trattativa» è stato ad oggi contestato nell'indagine di cui si discute. Così come la vittima dell'estorsione non è penalmente punibile per il solo fatto di «trattare» col mafioso il pizzo da pagare sotto la minaccia dell'estorsione. Altra questione è se sia punibile chi aiuta la mafia a portare la minaccia a destinazione, così agevolando la trattativa. L'intermediario dell'estorsione privata viene, ad esempio, sempre sanzionato per il sostegno dato all'estortore.
Ma, in ogni caso, ben altra questione è se sia moralmente ed eticamente giusto «trattare» con la mafia senza denunciarlo all'autorità giudiziaria. Il commerciante, se non lo ammette quando interrogato, risponde di falsa testimonianza o, a volte, di favoreggiamento. Lo stesso dovrebbe valere se la minaccia investe lo Stato e se il rappresentante dello Stato dovesse decidere di trattare. E in ogni caso, recenti coraggiose posizioni di Confindustria sono arrivate a sanzionare con l'espulsione il loro iscritto, imprenditore, che paghi il pizzo senza denunciarlo alla magistratura.
Se si scoprisse che analogo comportamento è stato realizzato da un governante per effetto delle minacce della mafia, fermo restando che tale comportamento può essere penalmente irrilevante, non sarebbe forse un comportamento meritevole di verifica in altra sede, soprattutto politica, proprio come sta facendo la commissione parlamentare Antimafia? Non sarebbe doveroso chiedersi se vi fu davvero un «arretramento tattico» intenzionale per meglio colpire i corleonesi, come si ipotizza nell'articolo di Pellegrino? Non hanno diritto i cittadini a saperlo, specie se, come è scritto in alcune sentenze passate in giudicato, tale scriteriata trattativa ha avuto, invece, il controproducente effetto di accelerare le stragi, come quelle del '93? e non hanno diritto a saperlo i familiari delle vittime di quelle stragi?
A questo mi riferisco quando ribadisco l'esigenza che si accerti tutta la verità su quel terribile biennio stragista. La magistratura deve solo perseguire responsabilità penali personali e cercare le prove, e celebrare processi se le prove ci sono. Ed ovviamente tenendo conto che i processi si fanno solo con una ragionevole probabilità di successo di ottenere condanne definitive. Ovvio, direi. La legge impone di andare a processo solo con elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Ma, se è così, la possibile verità giudiziaria va ricercata ad ogni costo, perché solo con la verità si può crescere.
Ma non soltanto con la verità giudiziaria. Tocca dunque anche ad altri fare la propria parte. Perché la magistratura non può e non deve supplire alle inerzie e alle lacune degli altri, della politica in primo luogo. Perché venga fuori tutta la verità. Quella giudiziaria nelle aule giudiziarie. Quella storico-politica in altre sedi. Perché, se del caso, corrispondano a prove di reato responsabilità penali. E conseguano ad altri accertamenti responsabilità politiche o di altro tipo. Per fare ciò la verità deve essere voluta da tutti, nelle varie sedi.
E bisogna cercarla. Aiutarla a venire fuori.

Tratto da: l'Unità

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