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andreotti-dellutri-webdi Francesco La Licata - 25 aprile 2012
Come spesso accade nei processi «importanti» - che coincidono quasi sempre con le vicende giudiziarie di imputati provenienti dalla politica - la pubblicazione delle motivazioni finali dei giudici finisce sempre per contraddire e sparigliare i commenti e le reazioni che seguono la lettura del dispositivo della sentenza. L’analisi e le riflessioni del collegio che ha annullato con rinvio la sentenza d’appello emessa a Palermo contro il sen. Marcello Dell’Utri non sfuggono a questa «prassi» e inducono gli osservatori a rivedere le loro posizioni.

Cosa dice la Cassazione? I giudici affermano in termini poco dubitativi che il senatore, cofondatore di Forza Italia e braccio destro di Silvio Berlusconi ancora oggi, ha ricoperto il ruolo di «mediatore», di «trait d’union» fra il cavaliere di Arcore in quel tempo (Anni Settanta) facoltoso imprenditore non ancora sceso in politica - e autorevoli dirigenti della Cosa nostra siciliana chiamati a garantire, dietro lauti pagamenti, la sicurezza dell’imprenditore e dei suoi familiari, messa in discussione soprattutto dai sequestri di persona per estorsione, allora attività preminente della mafia.

In questo senso si può tranquillamente affermare che sia stata riconosciuta l’esistenza del reato di concorso esterno, come sottolineano le parole stesse dei giudici della Suprema Corte. E, dunque, avevano torto quelli che - pochi minuti dopo la lettura del dispositivo - si sono abbandonati a guizzi di gioia, celebrando una inesistente assoluzione. L’aspetto conosciuto del dibattimento, infatti, allora non era il contenuto della sentenza, bensì il tono e le argomentazioni della requisitoria della pubblica accusa, che è «una parte» del processo.

Ma avevano torto, oggi che si conosce la motivazione si può dire, anche quanti avevano espresso pregiudizi sull’operato della V Sezione della Cassazione, visto che già dalla lettura del dispositivo si poteva intuire che le tesi del Procuratore Generale non erano state del tutto accolte e si andava ad una revisione del processo d’Appello. Altro che assoluzione e disconoscimento del concorso esterno in associazione mafiosa.

A leggere quanto hanno scritto i giudici, insomma, reggerebbe l’impianto accusatorio messo insieme dai pm di Palermo. Anche laddove le indagini poggiano sul contributo dei collaboratori di giustizia che, scrive la Cassazione, «sono stati usati correttamente» cioè soltanto in seguito a riscontri precisi. Vengono, dunque, dati per accertati l’incontro milanese tra Berlusconi, Dell’Utri ed alcuni boss di Cosa nostra e l’accordo per il «pagamento» della protezione. Circostanze, queste, che erano state messe in dubbio dal rappresentante della pubblica accusa.

Perché, allora, l’annullamento e l’indicazione di rifare l’appello? I giudici avvertono la necessità di riempire un «vuoto di motivazione» che riguarda il periodo tra il 1978 e 1982, quando Marcello Dell’Utri lasciò l’incarico nella holding di Berlusconi per andare a lavorare, sempre a Milano, alle dipendenze del costruttore di origine siciliana Filippo Rapisarda. Insomma, l’interruzione dei rapporti, dicono i giudici, «potrebbe risultare indicativa della definitiva fine della permanenza del reato fino a quel momento consumato». Su questo la Corte d’Appello dovrà approfondire e, se sarà provata la continuazione del ruolo di Dell’Utri, si potrebbero pure allungare i termini della prescrizione. Anche in questo caso, dunque, si rivelano intempestivi i cattivi pensieri sulla presunta «strategia dilatoria» della scadenza dei termini, utile per chiudere una vicenda spinosa e politicamente «difficile».

Ma, come nella maggior parte delle vicende giudiziarie che hanno riguardato i potenti, anche in questo caso resta poco comprensibile - almeno per chi sa poco di ingegneria giuridica e si basa su un po’ di buon senso - l’evidente salto tra le cautele dei giudici individuabili nella sentenza e il tono delle motivazioni, senza dubbio caustici, perentori e persino inappellabili. Le motivazioni su Dell’Utri riportano alla memoria le migliaia di pagine che «spiegavano» la prescrizione e la parziale assoluzione dell’ex premier Giulio Andreotti: illustravano i motivi di un’assoluzione con argomenti più che sufficienti per una condanna. L’altro motivo di sconcerto riguarda il riconoscimento dello status di vittima della mafia per il Berlusconi oggetto di taglieggiamento. Uno status che quasi mai viene riconosciuto agli imprenditori siciliani, o calabresi, o campani che pagano il pizzo e non denunciano i propri estorsori. Ma forse, come spesso accade nelle vicende di mafia, il codice si biforca nel consueto doppio binario. Ovviamente non ammesso.

Tratto da: La Stampa

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