Report fa questo, da sempre. Dai tempi di Milena Gabanelli, e ora di Sigfrido, è davvero uno "spazio salvo", prezioso e coraggioso, ostinato e contrario, perché resiste a tutti i cambi di governo e i ribaltoni in Rai. E con lo stesso rigore professionale, fa quello che oggi dà più fastidio ai padroni di tutti i vapori: il giornalismo d'inchiesta. Quello che non si ferma di fronte alle verità ufficiali e alle veline di regime, che va oltre i comunicati farlocchi e le conferenze stampa addomesticate, che si consuma le scarpe per andare nei luoghi a raccontare, a capire e a svelare quello che non si vede e non si dice. Ranucci aveva appena annunciato sui social la nuova stagione del programma, che inizierà il 26 ottobre. Nella prima puntata, i finanziamenti alla cultura, la scuola e l'università, gli appalti nell'eolico e nella sanità, le banche: può darsi che il movente della bomba di ieri notte vada cercato proprio in una di queste inchieste. Ma è tutto il lavoro di questi anni che si vuole silenziare, stavolta non con la carta bollata ma con la dinamite. Per questo quel boato ci riguarda tutti.
Quel boato riguarda i giornalisti. Senza eroismi, dovremmo sapere che questo è un mestiere da cani da guardia dei poteri, non da cani da salotto dei potenti. Senza egotismi, dovremmo ribellarci a tutte le forme di condizionamento e di ricatto. Senza velleitarismi, dovremmo conservare un'idea alta del giornalismo, che resta un presidio etico e non può essere né una curva ultrà né una piattaforma neutrale che registra una cacofonia di voci. Un secolo fa Alton Parker, giudice supremo della Corte di New York, scriveva che "un giornalismo onesto e indipendente è lo strumento più possente che la civiltà moderna abbia mai sviluppato": dovrebbe valere anche oggi, e fa bene Saviano a ricordarci che raccontare è un atto di resistenza civile. Ranucci è la prima linea, e vive sotto scorta da cinque anni, ma nelle retrovie meno conosciute e più periferiche ci sono decine e decine di cronisti giovani, precari, non protetti e angariati ogni giorno. Ha ragione Lirio
Abbate: quella è la parte più pregiata dell'informazione italiana. Ha urgente bisogno di risorse e di tutele.
Quel boato riguarda i cittadini. Se in una democrazia è in pericolo un giornalista come Ranucci, allora siamo in pericolo tutti. Nell'era della rabbia, delle fake news pilotate dai partiti e dell'odiocrazia social, il buon giornalismo è bene pubblico e bene comune, perché riflette il diritto di informare e di essere informati sancito dalla Costituzione repubblicana. Il settore è in crisi, ma ci sarà un motivo se ovunque nel mondo i governi provano sempre a controllare, imbavagliare o addirittura sopprimere l'informazione. Non c'è bisogno di andare nella democratura russa di Putin, dove Anna Politkovskaja fu assassinata nel giorno del compleanno dell'Uomo del Cremlino, e in pochi anni sono stati uccisi decine di redattori online, da Denis Suvorov a Zoya Konovalova. A Gaza, in due anni di guerra, sono caduti sul campo 232 giornalisti, perché non raccontassero gli orrori perpetrati tutti i giorni nella Striscia. A Washington, in dieci mesi di trumpismo, il tycoon di Mar-a-Lago ha fatto causa al New York Times per 15 miliardi di dollari, i cronisti della Abe sono stati offesi e altri sono stati esclusi dai briefing alla Casa Bianca, gli anchormen come Jimmy Kimmel sono stati cacciati dai network. In Ungheria, Orbán ha fatto chiudere 80 tra giornali, tv private e siti internet, e oggi controlla il 90% dei media nazionali. Il giornalismo indipendente fa paura a chi comanda. Per questo, da cittadini della polis, dovremmo preservarlo. "L'informazione e la democrazia progrediranno o periranno insieme". Lo diceva Joseph Pulitzer nel 1904, e oggi è ancora più vero.
Quel boato riguarda i politici. Conosco Sigfrido da anni, ci siamo incontrati pochi giorni fa ai "Dialoghi di Trani". Mentre passeggiavamo sul molo, seguiti dai suoi agenti, mi ha ricordato le minacce che lui e la sua famiglia subiscono da 16 anni, compresa l'ultima del 2024, quando nell'aiuola davanti a casa ha trovato due proiettili P38. Mi ha rifatto l'elenco delle 178 richieste di risarcimento danni che ha subito da parlamentari, imprenditori e mafiosi, e poi delle lettere di richiamo, dei tagli di risorse e degli ostacoli burocratici che ha sopportato dal servizio pubblico radiotelevisivo. Ieri si è levato forte e chiaro lo sdegno del Palazzo. La solita fiera delle ipocrisie. Solidarietà a Ranucci, adesso, specie da quelli che fuori e dentro la Rai l'hanno sempre infangato, intralciato, isolato, delegittimato. Querele temerarie e campagne diffamatorie, dossieraggi aziendali e biasimi istituzionali: un Vietnam quasi quotidiano. Le sinistre "riformiste", in passato, e ora soprattutto le destre illiberali e i volonterosi carnefici di Tele-Meloni, di Sigfrido hanno fatto un nemico, e ora un bersaglio. Più che contriti messaggi di vicinanza, adesso, servirebbero veri esami di coscienza. Prima di tutto, un approccio radicalmente diverso al rapporto con l'informazione: non più fortino da espugnare o fastidio da evitare, ma deposito di libertà e democrazia, da rispettare e da salvaguardare. E poi, magari, una seria assunzione di responsabilità che rimetta al centro lo Stato di diritto, plurale e liberale. La remissione di tutte le querele, l'abolizione di tutte le leggi-bavaglio, la valorizzazione di Report, modello di giornalismo investigativo in una Rai svilita e occupata manu militari dalla gioventù ripulita di Colle Oppio. Oggi siamo tutti Sigfrido Ranucci. Ma sono tempi bui. E come recita la testata del Washington Post, la democrazia muore nell'oscurità.
Fonte: La Repubblica
Foto © Imagoeconomica
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