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Lo smembramento in due tronconi del processo “Perfido” avrà ragioni tecniche a me ignote, tuttavia ci ha privati della possibilità di comprendere quanto avvenuto in questi anni in Trentino, quanto ampi e profondi legami si siano stabiliti in questi 40 anni tra la lobby del porfido e i clan della ‘ndrangheta. Questo anche grazie alla facilità con la quale la Procura, alla quale va senz’altro riconosciuto il merito di aver per la prima volta seriamente indagato, ha concesso numerosi patteggiamenti che hanno fatto uscire in sordina dal processo personaggi di rilievo come il generale Dario Buffa o, più recentemente soggetti quali Giuseppe Paviglianiti e Arafat Mustafa (uno dei tre, di origine macedone, condannati in via definitiva per il sequestro e pestaggio di un operaio cinese avvenuto il 2 dicembre 2014 a Lona-Lases). Sul patteggiamento concesso a questi ultimi per la prima volta nel febbraio 2022 dal Gip dott. Borrelli era intervenuta la Cassazione, su richiesta della Procura generale, annullando e rinviando perché non adeguatamente motivato.
I due, infatti, erano imputati per il reato di “associazione mafiosa” (art. 416 bis) ma uscirono di scena mediante il patteggiamento con pene irrisorie grazie alla derubricazione del capo d’imputazione: “assistenza agli associati” (art. 418 c.p.). Tuttavia il patteggiamento venne confermato nel dicembre 2023 davanti al Gip dott. Giua e così anche la pena: 2 anni a Mustafa e 1 anno e 6 mesi a Paviglianiti. La Procura generale ha però impugnato nuovamente e stavolta la Cassazione ha annullato “senza rinvio” evidenziando come “la qualificazione delle condotte descritte come favoreggiamento posto in essere dall’imputato Mustafà al di fuori del reato associativo, al fine di garantire agli associati l’impunità (pag. 6 della sentenza impugnata), è palesemente eccentrica rispetto alle condotte contestate e risulta con particolare immediatezza dal capo di imputazione (…)”. La stessa cosa viene evidenziata per il Paviglianiti con la qualificazione del reato ai sensi dell’art. 418 co. 2 c.p., quindi ritenendo che questi avesse “prestato rifugio o vitto agli associati, senza condividerne il proposito criminoso”, mentre il capo d’imputazione gli contestava “di avere preso parte all’associazione mafiosa, riconoscendo e rispettando le gerarchie e le regole interne del sodalizio, eseguendo le direttive del capo cosca, fornendo supporto agli affiliati”. Dai resoconti di stampa (L’Adige 24 maggio) pare che ora, davanti al Gup del Tribunale di Rovereto dott. Peloso, i capi d’imputazione siano stati formulati in modo corretto (al Mustafa è stato contestato anche quello di “sfruttamento del lavoro”, in origine “riduzione in schiavitù”) e quindi stavolta potrebbe concludersi così la vicenda giudiziaria dei due. E’ evidente che quello del febbraio 2022 è stato un primo “deragliamento”, avvenuto con l’espressione del parere favorevole al patteggiamento da parte della Procura: per quali motivi, pur a conoscenza di tutti gli elementi utili a far ritenere i due quali partecipi dell’associazione mafiosa, la pubblica accusa ha acconsentito per ben tre volte ad una tale derubricazione del reato e come questa è potuta avvenire in sede di patteggiamento? Possiamo dire di aver assistito alla trasformazione del vino in acqua?
Un altro passaggio discutibile, sul quale il C.L.P. e l’avv. Bonifacio Giudiceandrea (consulente legale del C.L.P. che ha assistito nella prima fase i tre operai cinesi costituitisi parte civile, ora rappresentati dall’avv. Sara Donini) avevano sollevato molti dubbi, fu la riapertura dei termini per la scelta dei riti abbreviati il 18 febbraio 2022, ben oltre il termine dei 15 giorni previsti, considerato che la prima udienza si era tenuta il 21 gennaio. L’escamotages usato fu la contestazione dei reati fine quali nuovi reati, nonostante essi fossero già tutti indicati nell’Ordinanza di rinvio a giudizio. Passaggio che ha tolto di mezzo, con il dibattimento e quindi la pubblicità delle udienze, tutti i testimoni dell’accusa, mentre a decine di testimoni a difesa è stato consentito di sfilare nell’aula della Corte d’Assise.
Per non parlare poi dell’uscita di scena del “faccendiere” cav. Giulio Carini, la cui incapacità di sostenere il processo è stata sancita semplicemente prendendo atto di un certificato medico nemmeno sottoposto al vaglio di un perito del giudice o del PM. O di quella incapacità di seguire coscientemente il processo riconosciuta a Innocenzio Macheda (considerato il capo del “locale” ‘ndranghetista), affetto da Parkinson, malgrado il parere contrario espresso dallo psichiatra consulente del giudice in udienza. Macheda che nel mentre in tribunale si dibatteva sulla questione, forniva il suo fattivo contributo ad un sodale nel compiere un’estorsione in Valsugana, venendone regolarmente denunciato! 

Ora a processo anche politici e carabinieri, ma quali e quante sono state in questi anni le collusioni e le contiguità?

Il prossimo 18 luglio presso il Tribunale di Trento prenderà dunque l’avvio il secondo troncone del processo, con l’udienza di convalida della costituzione delle parti civili, a ben 4 mesi di distanza dalla prima udienza tenutasi il 14 marzo scorso in quanto per celebrare il processo si è dovuto ricorrere alla dott.ssa Elsa Vesco proveniente dal Tribunale di Bolzano. Questo a causa dell’incompatibilità dei giudici del Tribunale di Trento determinata anche dalle scelte processuali operate, così come affermato anche nelle motivazioni della sentenza di Appello che ha confermato lo scorso 24 febbraio le condanne emesse in primo grado nei confronti degli 8 imputati rimasti, con rito abbreviato condizionato, di fronte alla Corte d’Assise. Oltre ai mille rivoli nei quali si è smembrato questo processo, occorre tenere conto anche della carenza di organico determinatasi dopo che il presidente del Tribunale, il presidente della sezione Penale e un Pubblico ministero erano stati oggetto di censure da parte del CSM e spostati ad altre sedi per il loro coinvolgimento nell’indagine “Perfido”. Venne inoltre alla luce una chat denominata “Pallavolo” che collegava alcuni di questi magistrati ed esponenti politici e imprenditoriali trentini nell’ambito di una indagine della Guardia di Finanza sull’acquisto della tenuta Feudo Arancio in provincia di Ragusa da parte della Cantine Mezzocorona. Operazione finanziaria finita all’attenzione della Magistratura in quanto tali proprietà appartenevano ai cugini Ignazio e Antonino Salvo (considerati gli esattori di Cosa Nostra all’epoca del maxi processo), che portò nel marzo del 2020 al sequestro di dette proprietà per un valore di 70 milioni di euro. Sequestro non convalidato dal Tribunale del Riesame di Trento la cui composizione pare sia stata manipolata proprio dal presidente del Tribunale che ha immediatamente annunciato la decisione del Riesame proprio mediante la chat “Pallavolo”.

Ma vediamo di esaminare le questioni e gli interrogativi ancora senza risposta dopo la conclusione della prima fase processuale, nella quale è stata sancita in via definitiva l’associazione di stampo mafioso in Trentino. Visto che in questo secondo troncone anche alcuni politici ( un ex deputato e due ex sindaci di Lona-Lases e Frassilongo, rispettivamente Roberto Dalmonego e Bruno Groff) sono chiamati a rispondere del reato di scambio elettorale politico-mafioso, ci si chiede quanto la presenza mafiosa abbia condizionato (e condizioni) anche la politica locale e quella provinciale, inquinando di conseguenza la vita democratica trentina. Uno dei politici chiamati a rispondere del reato di cui sopra è l’on. Mauro Ottobre che recentemente ha rilasciato una lunga intervista proprio al direttore del mensile Questotrentino (che per primo ha pubblicato una inchiesta giornalistica sulle infiltrazioni mafiose in Trentino nel maggio/giugno 2019 e ne segue attentamente gli sviluppi processuali), e proprio nelle sue dichiarazioni si rintracciano alcuni elementi utili a comprendere quanto avvenuto ben prima che l’indagine dei Carabinieri del ROS, iniziata nel 2017 e conclusasi nel 2020 con una serie di arresti effettuati il 15 ottobre di quell’anno, facesse emergere l’esistenza di un “locale” di ‘ndrangheta basato tra Lona-Lases e Albiano. “Locale” nel quale erano rappresentati i clan calabresi dei Serraino, degli Iamonte e dei Paviglianiti, ai quali facevano riferimento soggetti stanziatisi nella zona del porfido e in alta Valsugana fin dalla fine degli degli anni Settanta del secolo scorso. Presenza ‘ndranghetista che ha già trovato conferma mediante due sentenze di condanna per “associazione mafiosa” con rito abbreviato nei confronti di 3 dei 22 indagati, confermate in Cassazione e quindi definitive, mentre per altri 8 le condanne sono state confermate in Appello e si attende il responso della Cassazione.

L’on. Ottobre parla, infatti, di una cena in quel di Nago-Torbole (sul lago di Garda) nel 2016, organizzata dal solito Giulio Carini, alla quale sarebbero stati presenti “notai, politici della giunta Rossi, esponenti delle forze dell’ordine, magistrati”. Siamo nell’epicentro di un’altra recente inchiesta su affari e corruzione condotta meritoriamente dalla Procura di Trento, retta fino a poche settimane fa dal dott. Sandro Raimondi (ora in pensione), l’indagine “Romeo”. Al centro gli affari del magnate austriaco René Benko e le relative accuse di corruzione che, guarda caso, hanno lambito alcuni personaggi i cui nomi sono comparsi anche nell’indagine “Perfido”, a dimostrazione degli assidui contatti che collegano il “mondo di sopra” col “mondo di mezzo”.

Tornando a noi, non possiamo fare a meno di ricordare che proprio la Giunta di centro-sinistra presieduta da Ugo Rossi (Patt) nominò nel 2015 commissario straordinario a Lona-Lases il dott. Mauro Dallapiccola (prematuramente scomparso), noto commercialista (titolalare di S.El.Dat. unitamente all’allora sindaco di Baselga di Piné Bruno Grisenti) nonostante la sua incompatibilità per quel ruolo, in quanto assisteva varie ditte operanti anche nel settore estrattivo concessionarie di cava in quel comune e nei confronti delle quali erano in corso verifiche o procedimenti sanzionatori. Un personaggio di spessore anche politico visto che era stato presidente della Comunità di valle “Alta Valsugana e Bersentol”, legato oltretutto a certi ambienti avendo rivestito la carica di presidente del Collegio dei revisori all’interno della Camparta (di cui diremo in seguito) durante la gestione Odorizzi-Battaglia. Proprio in quel frangente si verificò una strana convergenza tra la Fillea-Cgil di cui era segretario Maurizio Zabbeni (oggi in procinto di diventare segretario generale della Cgil trentina), il sopra menzionato Commissario straordinario del comune e l’assessore provinciale all’industria Alessandro Olivi (Pd) finalizzata ad annullare i provvedimenti sanzionatori nei confronti delle ditte concessionarie dell’estrazione del porfido seguiti alle denunce del Coordinamento Lavoro Porfido in merito al mancato rispetto dei Contratti collettivi di lavoro. Un tentativo in extremis di evitare un precedente pericoloso, non andato a buon fine per una serie fortuita di circostanze, tra le quali la notizia data quel giorno sul quotidiano locale “L’Adige”, a firma del giornalista Domenico Sartori (audito sulle vicende dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’on. Nicola Morra, la cui attenzione è stata di fondamentale importanza per impedire insabbiamenti), del primo esposto alla Procura della Repubblica presentato dal C.L.P. nei confronti dello stesso Commissario straordinario e la presenza in Comune quale segretario del dott. Marco Galvagni, grazie ai cui controlli stringenti stavano emergendo le gravi inadempienze contrattuali in merito alla regolarità retributiva e contributiva da parte delle ditte. 

Quanto sono stati ampi e profondi i condizionamenti nella sfera politico-amministrativa?

Va evidenziato che proprio nel 2016 la Giunta provinciale si accingeva a modificare la Legge Cave mediante un disegno di legge dello stesso assessore Olivi, presentato per sbarrare la strada ad un analogo disegno, presentato all’inizio di quell’anno dal consigliere provinciale Filippo Degasperi, elaborato con il supporto del C.L.P. al fine di emendare la legge 7/2006 dagli eccessivi margini di discrezionalità che lasciava agli amministratori locali (sindaci) spesso in palese conflitto d’interessi. Modifica avvenuta mediante la L.P. 1/2017, mettendo al riparo sindaci, giunte e consigli comunali, così come lo stesso assessore e i suoi colleghi della Giunta provinciale, rispetto alle possibili conseguenze penali derivanti da alcuni esposti del C.L.P. in merito alla mancata attuazione di quanto previsto nella L.P. 7/2006 in materia di tutela dei livelli occupazionali. Una inadempienza che ha permesso alle aziende concessionarie una significativa riduzione della manodopera occupata (fino al 60%), portando alle estreme conseguenze il processo di esternalizzazione delle lavorazioni iniziato nel decennio precedente ed esponendo nel contempo i lavoratori ad un pesante ricatto occupazionale. Una questione ben nota anche ai Sindacati confederali visto che gli stessi dichiararono esser “stati disattesi gli indirizzi formulati dalla Giunta provinciale sui vincoli occupazionali” nell’audizione davanti alla Commissione ( presidente il consigliere provinciale Valter Viola) incaricata di verificare lo stato di attuazione della legge cave vigente, come riportato nella relazione conclusiva del 17 dicembre 2015. Con ciò dimenticando che non si trattava di semplici “indirizzi” della Giunta provinciale bensì di obblighi per i Comuni, contenuti in una legge approvata dal Consiglio provinciale nell’ottobre 2006 (L.P. 7/2006, art. 33, co. 5). Una “disattenzione” che ha contribuito a determinare le condizioni che hanno reso possibile quello “sfruttamento del lavoro” (art. 603 bis) riconosciuto in sede penale nel primo troncone quale reato a carico di alcuni imputati, confermato in Appello attende ora il vaglio della Cassazione. Reato meno grave dell’originaria imputazione di “riduzione in schiavitù” (art. 600), così ridimensionato grazie agli accordi di conciliazione in sede sindacale sottoscritti nientemeno che dall’allora segretario della Filca-Cisl Fabrizio Bignotti (ora passato alla FeNeal-Uil), su diretta sollecitazione degli stessi titolari della due aziende concessionarie coinvolte ed operanti ad Albiano e Lona-Lases (come testimoniano le intercettazioni telefoniche dell’indagine “Perfido”). E pensare che poi Filca e Fillea si sono costituite parte civile nel processo, senza tuttavia portare a costituirsi nessuno degli svariati operai, in maggioranza extracomunitari, riconosciuti dalla Procura come parti lese (i tre operai cinesi costituitisi parte civile sono stati sostenuti dal C.L.P.). 

Su quanto avvenuto durante il dibattito in aula sul ddl Olivi è ancora l’on. Ottobre ad attirare l’attenzione, affermando: “Macheda era in aula, con gli altri cavatori, a parlare con i politici, ma non con me…”. Infatti, una folta delegazione di imprenditori ed artigiani (appartenenti per lo più a quella che noi chiamavamo “zona grigia”), capeggiati da Pietro Battaglia e Davide Casagranda (oltre che dai consiglieri comunali di Lona-Lases Fulvio Micheli  e Moyra Fontana) era effettivamente sugli spalti del pubblico a seguire il dibattito in Consiglio provinciale, pronta ad applaudire le uscite dell’allora consigliere di opposizione, oggi presidente della Provincia, Maurizio Fugatti.  Significativo il fatto che tutto il peso per sostenere i pochi aspetti potenzialmente positivi contenuti nella proposta Olivi, pesantemente attaccati dallo stesso Fugatti, fosse lasciato sulle spalle dell’allora consigliere pentastellato (oggi Onda Civica) Filippo Degasperi. Incassato poi il risultato della legge i porfidari hanno cambiato cavallo e nelle elezioni provinciali del 2018, a Lona-Lases fu la “Civica Trentina” (allora capeggiata da Rodolfo Borga, prematuramente scomparso), nella quale candidava l’ex sindaco Marco Casagranda, ad ottenere un buon risultato e in generale il centro-destra ad imporsi a livello provinciale. Che l’ex sindaco raccogliesse 48 voti di preferenza non meraviglia, il fatto però degno di nota è che ben 42 preferenze siano andate non al capolista Borga (che prese un solo voto di preferenza) bensì ad un allora sconosciuto candidato di nome Mattia Gottardi, poi assessore agli Enti locali nella Giunta Fugatti. Una lista contrassegnata, come segnalato in una interrogazione parlamentare del settembre 2023 presentata dall’on. Stefania Ascari, dalla candidatura di Francesca Morabito, nome che compariva tra i soci della ditta D. & M. Snc di Denise Pietro & C. estrazione, lavorazione e posa del porfido, evidenziando che Denise Pietro fosse soggetto poi coinvolto nell’indagine “Perfido”, arrestato il 15 ottobre 2020 e condannato in via definitiva per i reati previsti e puniti agli articoli 110 e 416-bis del Codice penale. Lista connotata politicamente dalla presenza di Vanessa Masè e, soprattutto, dalla nomina a capo di Gabinetto dell’assessore Gottardi di Marika Poletti (ex coordinatrice di FdI), poi costretta alle dimissioni nel marzo 2019 a causa della svastica tatuata su una gamba e delle esibizioni canore con riferimenti alla Germania nazista. Una corrente politica oggi ben rappresentata nelle amministrazioni locali della zona, negli anni scorsi presente anche nel Consiglio comunale di Lona-Lases con Stefano Cobelli, militante legato all’ex senatore Cristano de Eccher, la cui formazione giovanile affonda le radici nella tradizione politica del neofascismo stragista.

Tornando al nuovo assessore provinciale, va detto per inciso, che il suo silenzio è stato prezioso nell’agevolare i Commissari del Governo, succedutisi in questi anni a Trento, nella loro tenace opposizione alla richiesta di invio di una Commissione d’accesso a Lona-Lases, necessità sostenuta da più parti e con impegno particolare dal consigliere provinciale del M5s Alex Marini.

Come mai l’ex sindaco Casagranda, che nel 2005 nominò assessore esterno alle cave proprio Giuseppe Battaglia, “non è mai stato sentito?” si chiede, nella succitata intervista, l’on. Ottobre.  Ex sindaco che in una lettera all’Adige del 22 marzo 2017 esprimeva pubblicamente la sua stima proprio nei confronti dei fratelli recentemente condannati in primo e secondo grado (quindi ancora “non colpevoli”) per “associazione mafiosa”  nel processo “Perfido”, affermando: “ho avuto il piacere di avere i fratelli Battaglia in consiglio comunale e ho potuto notare la voglia di spendersi per la comunità nella quale vivono”.

A onor del vero l’ex sindaco di Lona-Lases venne rinviato a giudizio nel gennaio 2019 per il reato di “abuso d’ufficio” in merito ad atti relativi alla ditta Anesi Srl, concessionaria di lotto estrattivo in località Pianacci e controllata dalla Finporfidi riconducibile alla famiglia Battaglia.  Un procedimento iniziato ma, a quanto ci risulta, mai conclusosi essendosi nel frattempo insediato un governo che ha sbandierato fin dall’inizio la sua intenzione di abrogare tale reato. Tuttavia, da profano della materia, mi chiedo se anche a Trento il PM, così come avvenuto altrove, avesse potuto percorrere la strada della diversa rubricazione del capo d’imputazione, stante il fatto che nel frattempo era stata portata a termine l’indagine “Perfido”, facendo emergere un quadro della situazione diverso e ben più grave e preoccupante. Per inciso ricordo che negli anni in cui Battaglia ricoprì tale incarico il suo nome si ritrova quale amministratore della Marmirolo porfidi, ditta coinvolta nell’inchiesta “Aemilia”, per la cui bancarotta fraudolenta vennero indagati i fratelli Cesare ed Antonio Muto (quest’ultimo condannato) legati al clan Grande Aracri, come segnalato in una relazione all’ANAC dallo stesso dott. Galvagni in qualità di responsabile anticorruzione della gestione associata tra i comuni di Albiano, Lona-Lases, Segonzano e Sover. 

Ma tra i nomi eccellenti di coloro che mai sono stati però interrogati, almeno come “persone informate sui fatti”, vi è anche l’ex sindaco di Albiano Tiziano Odorizzi, entrato in Consiglio provinciale nel 2003, mentre era ancora in società con i fratelli Battaglia nella cava di Camparta, acquistata dalla cordata Odorizzi-Battaglia qualche anno prima per 12 miliardi di lire (il doppio del suo valore); un’operazione definita dai PM del processo “Perfido” una “probabile operazione di riciclaggio”. Nelle file della Margherita (partito dell’allora presidente della G.P. Lorenzo Dellai), Odorizzi ebbe un ruolo determinante in Commissione industria nell’impedire che approdasse alla discussione in Consiglio una proposta di legge cave presentata da ben tre consiglieri della maggioranza: Bombarda (Verdi), Pinter (Pd) e Viganò (Margherita). Proposta condivisa anche dal compianto consigliere provinciale del Prc Agostino Catalano allora all’opposizione ed elaborata con il supporto di un Comitato locale del quale facevano parte diversi componenti attuali del C.L.P.. Odorizzi evidentemente aveva un peso specifico maggiore di ben tre colleghi della stessa maggioranza e il suo sbarramento spianò la strada al ddl dell’assessore Marco Benedetti (il cui segretario era Ezio Cristofolini, già direttore del Consorzio cavatori porfido di Fornace) che diverrà poi la discussa L.P. 7/2006. Per inciso si ricorda che quella legge, non a caso, lasciava ampi margini di discrezionalità a sindaci nella maggior parte dei casi in conflitto d’interesse in quanto parenti, soci o addirittura titolari di imprese concessionarie di attività estrattiva, ne è prova il fatto che vennero concessi ben due anni di tempo ai Comuni per darne attuazione. Tuttavia la Provincia concesse una proroga di altri due anni e addirittura ad Albiano, il comune dove è concentrata la maggior parte dell’attività estrattiva (e dove Odorizzi era stato sindaco e vice sindaco prima di approdare in Consiglio provinciale), si giunse a darne attuazione solo nel settembre del 2011, a ben 5 anni di distanza dalla sua approvazione nell’ottobre del 2006, senza alcuna sanzione provinciale. Attuazione che addirittura avvenne mediante l’approvazione di ben 36 delibere separate, una per ogni concessione, al fine di mascherare il conflitto d’interessi nel quale si trovavano la maggior parte dei consiglieri comunali, che se palesata avrebbe determinato l’invio di un commissario ad acta. Si evidenzia come in quel momento la carica di sindaco fosse ricoperta da Mariagrazia Odorizzi, dipendente provinciale e socia di ditta concessionaria, e quella di vice da Rosario Bertuzzi, appartenente ad una storica e potente famiglia di concessionari di cava!

Tornando però al processo due parole vanno spese anche per Franco Bertuzzi di Albiano (fratello del già menzionato vice sindaco Rosario Bertuzzi), imprenditore mai interrogato sui fatti relativi al sequestro e pestaggio del lavoratore cinese avvenuto il 2 dicembre 2014, nonostante la richiesta della Polizia giudiziaria (aliquota Carabinieri) autorizzata dal PM. Fatti in relazione ai quali sono oggi, sia pur tardivamente, chiamati a rispondere alcuni carabinieri allora in servizio presso la Stazione di Albiano. Faccio osservare che negli atti d’indagine allora condotti sul pestaggio vennero acquisiti i tabulati telefonici e una delle anomalie che notammo con il compianto avv. Giampiero Mattei (che ha difeso l’operaio cinese vittima del sequestro e pestaggio ed è stato consulente legale del C.L.P.), era la non identificazione della cella di aggancio del cellulare intestato alla ditta Avi & Fontana usato dal Bertuzzi sia nei contatti con Mustafa Arafat che con il mar. Roberto Dandrea (comandante la Stazione di Albiano). Ebbene, negli atti d’indagine “Perfido” vi è una intercettazione telefonica di Mario Giuseppe Nania (anch’egli coinvolto nel processo “Perfido” e condannato in via definitiva per estorsione nei confronti dei lavoratori in qualità di amministratore della Anesi Srl per fatti risalenti all’estate 2014 e inerenti i mancati adempimenti contrattuali in materia salariale) nella quale egli afferma di essere stato chiamato “come a Franco (Bertuzzi)” dal Mustafa (in realtà sappiamo che è sempre Bertuzzi a chiamare), precisando però: “io non sono andato (…) invece la cella di Franco è andata fino lì…”. Anche per Bertuzzi dunque, così come per il mar. Dandrea, vale l’interrogativo su dove si trovasse tra le 20 e le 21 del 2 dicembre 2014, nelle fasi finali della vicenda che costituirà poi il punto di avvio dell’indagine “Perfido”.

Attendiamo dunque fiduciosi, chissà se questa seconda fase processuale fornirà risposte a tanti interrogativi.

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