Si potrebbe parlare della tragedia di Gaza riversando, sulle parole d’odio pronunciate dai sostenitori d’Israele nei confronti del popolo palestinese, altrettanto odio nei confronti degli ebrei, fino a farsi trascinare, per questa via, sul terreno del più becero antisemitismo di matrice nazi-fascista. Contrastare l’odio di coloro che definiscono terroristi i bambini palestinesi di 5/6 anni e ne giustificano così l’uccisione da parte dell’esercito israeliano (e dagli stessi coloni stanziati in insediamenti illegali in Cisgiordania) con altro odio, porta solo ad alimentare la spirale di violenza e disumanità che minaccia di trascinarci in un gorgo senza speranza. Per disinnescare questa spirale e mantenere aperte altre opzioni per il futuro dell’umanità è necessario contrastare l’odio con parole di verità e sincera aspirazione di giustizia. La reazione feroce del governo Netanyahu, dopo l’azione terroristica realizzata il 7 ottobre 2023 dalla Resistenza palestinese, condotta attraverso l’uso delle più moderne tecnologie applicate alla guerra, compreso l’uso massiccio della cosiddetta “intelligenza artificiale” per individuare gli obiettivi e guidare i bombardamenti dell’aviazione israeliana, sembra volta alla “soluzione finale” del problema palestinese. Bombe che hanno distrutto case, ospedali, scuole, strade, acquedotti e infrastrutture di ogni tipo, riducendo la Striscia di Gaza (già definita una “prigione a cielo aperto”) ad un cumulo di macerie e la sua popolazione alla fame. Un’azione genocidaria per la quale alcuni Paesi (per primo il Sudafrica) hanno denunciato Netanyahu e il suo ministro della difesa Gallant alla Corte di Giustizia Internazionale per violazione della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”, Corte che ha ritenuto fondate le accuse avviando la procedura di incriminazione nei confronti degli accusati. A ciò si aggiungano le evidenze in tal senso contenute nei rapporti di numerose associazioni umanitarie presenti a Gaza e testimonianze raccapriccianti di operatori sanitari che hanno prestato la loro opera negli ospedali della Striscia. A partire da quella della dott.ssa statunitense di origine siriana Tanya Haj Hassan, che ha fornito una commovente testimonianza davanti all’assemblea dell’ONU, fino a quella del chirurgo britannico prof. Nizam Mamode, che ha raccontato come a Gaza si operassero bambini senza disponibilità di anestetici e usando come antidolorifico solo il paracetamolo. Ma occorre sottolineare anche come l’esercito israeliano (Idf) abbia preso di mira non solo le strutture sanitarie ma anche il personale palestinese operante nelle stesse, in proposito basti la vicenda dell’amatissimo chirurgo palestinese di Gaza, dott. Adnan Al-bursh, arrestato dall’Idf senza alcuna imputazione formale e morto in carcere nel maggio 2024. Non meno vile il comportamento dell’Unione Europea che, a maggio 2024, ha bandito dall’area Schemghen per un anno il medico chirurgo Ghassan Abu Sitta, rettore dell’Università di Glasgow, reo di aver prestato la sua opera come volontario negli ospedali di Gaza e di aver denunciato la sistematica distruzione del sistema sanitario come parte integrante della logica genocidaria che muove Israele. Le accuse di genocidio sono state confermate inoltre, e a più riprese, da rappresentanti delle stesse Nazioni Unite come Francesca Albanese, “relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967”, che nel suo ultimo rapporto ha esteso l’attenzione alle azioni del governo israeliano e dei coloni a Gerusalemme e Cisgiordania. In Europa, e segnatamente in Italia, i rappresentanti ufficiali delle Comunità ebraiche hanno sistematicamente respinto la possibilità di chiamare genocidio quanto avvenuto a Gaza, anche la senatrice a vita Liliana Segre, che pur ha conosciuto direttamente l’orrore dei lager, ha respinto decisamente tale definizione affermando non si possa in alcun modo paragonare la tragedia palestinese all’Olocausto e quindi si debba in questo caso parlare di “crimini contro l’umanità”. In molti hanno sostenuto l’impossibilità di parlare di genocidio in quanto questo presupporrebbe l’accusa nei confronti di Israele di essere impegnato a perseguire un programma di “pulizia etnica”, accusa ritenuta abnorme dalla maggior parte delle Comunità ebraiche. Tuttavia, vari studiosi ebrei, da Raz Segal allo storico Ilan Pappé, passando per il noto intellettuale israeliano Ori Goldberg, hanno esplicitamente parlato sia di “pulizia etnica” così come di “genocidio”, argomentando compiutamente in proposito. Segal, professore israeliano di Genocide Studies, già il 15 ottobre 2023, titolava un articolo per Jewish Currents: “Un caso da manuale di genocidio”. Nel suo libro “Modernità e Olocausto” (la cui prima edizione risale al 1989) il sociologo Zygmunt Bauman collocava l’Olocausto all’interno della logica intrinseca alla modernità occidentale, togliendolo dall’assolutizzazione quale episodio aberrante legato ad un quasi irripetibile sbandamento della civiltà e quindi contraddicendo quanto sostiene la senatrice Segre. Egli definisce gli obiettivi del “comune” genocidio non necessariamente come la totale distruzione di un gruppo, una comunità; il fine della violenza può essere quello di “distruggere la categoria designata in quanto comunità vitale capace di autoperpetuarsi e di difendere la propria identità”. Il suo scopo, sottolineava Bauman, può considerarsi raggiunto quando: “1) il livello della violenza è stato tale da minare la volontà e la resistenza di coloro che l’hanno subita, e da spingerli col terrore ad arrendersi a un potere superiore e ad accettare l’ordine da esso imposto; 2) il gruppo designato è stato privato delle risorse necessarie alla continuazione della lotta”. “Quando queste due condizioni risultano soddisfatte – scriveva – le vittime sono alla mercé dei loro persecutori.” A quel punto, affermava l’autore, “esse possono essere condannate a una lunga schiavitù o può essere loro offerto un posto nel nuovo ordine alle condizioni stabilite dai vincitori, ma la scelta tra le diverse possibilità è affidata esclusivamente al capriccio dei dominatori”. Queste parole sembrano descrivere con estrema efficacia l’esito perseguito dal governo Netanyahu a partire dal 8 ottobre 2023. In conclusione del suo discorso, Bauman evidenziava che “quale che sia l’opzione prescelta, coloro che commettono il genocidio ne beneficiano” in quanto “estendono e solidificano il proprio potere, ed estirpano le radici dell’opposizione”. Se non siamo stati capaci di impedire ciò che è avvenuto a Gaza, oggi, siamo almeno chiamati ad impedire che questo possa essere l’esito dell’azione di Israele, perché se così fosse vorrebbe dire che, non solo abbiamo permesso che il genocidio si compisse sotto gli occhi di tutti, ma pure che i responsabili possono impunemente raccoglierne i frutti.
Come è possibile che un Paese democratico quale Israele si sia reso responsabile di genocidio?
Come è potuto accadere, oggi, tutto ciò, e soprattutto come è possibile che ciò sia avvenuto per mano dello stato d’Israele, erede di quegli ebrei che hanno subito il genocidio nel centro dell’Europa 80 anni fa? Possibile che i figli o i nipoti di coloro che sono stati vittima dell’Olocausto nazista abbiano permesso e perpetrato una azione genocidaria nei confronti dei palestinesi? Non solo, ma come è possibile che a perseguire una tale scelta sia il governo di un paese considerato l’unica democrazia del Medio Oriente? Se il genocidio degli ebrei è stato reso possibile grazie ad un regime dittatoriale come quello hitleriano, come mai in un paese democratico non si è riusciti a fermare la mano genocida di Netanyahu?Per rispondere a questi interrogativi occorre in primo luogo considerare che, fin dalla nascita di Israele, è sempre stata negata alla popolazione araba della Palestina la dignità di “popolo”. Il mito di “una terra senza popolo per un popolo senza terra” ha accompagnato, fin dai primi stanziamenti ebraici, l’occupazione della Palestina da parte dei coloni sionisti. La massiccia espulsione della popolazione palestinese dai propri villaggi e dalle proprie terre avvenuta nel 1947/48, al momento della nascita dello stato d’Israele, fu a tutti gli effetti un’operazione di “pulizia etnica”. Furono distrutti ben cinquecento villaggi palestinesi e undici insediamenti urbani, vennero espulsi 700 mila palestinesi e parecchie migliaia furono massacrati. L’ONU, allora, impose un piano di spartizione della Palestina che assegnava il 56% del territorio alla minoranza ebraica che contava circa 600 mila persone e il restante 44% alla maggioranza palestinese che assommava a 1,5 milioni di abitanti. Molti oggi affermano che allora gli arabi palestinesi respinsero tale piano di spartizione e con esso anche la possibile nascita di uno stato di Palestina, ma occorre considerare che per la popolazione araba quella sionista era un’occupazione coloniale, del tutto simile, se si vuole fare il paragone, a quella francese in Algeria. Come potevano i palestinesi accettare un simile piano di spartizione calato dall’alto e prodotto di quel colonialismo di popolamento che fu caratteristico della “sostituzione etnica” operata dall’imperialismo europeo in ampie aree e continenti del nostro pianeta, dagli Stati Uniti all’Australia? Quella tragedia fu per i palestinesi la Nakba, ben documentata libro “La pulizia etnica della Palestina” dello storico israeliano Ilan Pappé, che per aver osato ricostruire la verità storica sulla nascita di Israele è stato costretto a trasferirsi nel regno Unito. Nel 2022 il regista israeliano Alon Shwartz ha realizzato un documentario su un episodio di quei tragici fatti, che gli israeliani chiamano “guerra d’indipendenza”, recuperando anche la vicenda di un giovane storico che se ne era occupato 30 anni prima e la cui tesi di dottorato venne bocciata dal senato accademico dell’Università di Haifa. “Tantura”, il titolo del documentario, prende il nome da un piccolo villaggio di pescatori palestinesi distrutto nel 1948 (oggi località turistica israeliana), nel quale i soldati della brigata Alexandroni avevano commesso svariati “crimini contro l’umanità”. Crimini che il giovane ricercatore Teddy Katz aveva documentato attraverso le interviste registrate ai veterani, dalle quali emergevano tutte le brutalità di quella operazione di “pulizia etnica” che fu la “Nakba” (Catastrofe): esecuzioni mediante una mitragliatrice di uomini catturati all’interno di un recinto; inseguimenti con un lanciafiamme di abitanti del villaggio che fuggivano terrorizzati; uccisione a sangue freddo mediante un colpo di pistola di decine di prigionieri; stupri. Le fosse comuni di queste persone oggi si trovano occultate sotto un parcheggio e di Tantura rimane solo il ricordo di qualche palestinese invecchiato in un campo profughi. I crimini di guerra commessi dai soldati della brigata Alexandroni e portati alla luce dal giovane storico Teddy Katz oltre trent’anni fa, sono rimasti sepolti fino ad oggi, nascosti dalle cause giudiziarie che, grazie alle ritrattazioni degli intervistati, lo costrinsero ad una sorta di “abiura” e lo condannarono all’isolamento e all’emarginazione. Ora il lavoro di Shwartz non solo ha riabilitato la sua figura, ritrovando prove incontrovertibili di quei fatti, ma ha pure rotto il muro dell’omertà così come dei falsi miti sull’esercito più “morale” del mondo; “solo venendo a patti con i nostri tabù – ha affermato il regista – potremo uscire dal conflitto”. Purtroppo però la società israeliana non si è mossa in questa direzione e quella di Israele è una democrazia che, nonostante nella sua dichiarazione d’indipendenza garantisca “la più completa eguaglianza sociale e politica a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di credo religioso, razza o sesso”, non riconosce la piena cittadinanza alla minoranza araba residente entro i suoi confini. Rappresaglie di stampo razzista sono addirittura avvenute contro la minoranza araba interna quando, nell’ottobre del 2000, questa ha protestato per la feroce repressione avvenuta in Cisgiordania e a Gaza contro i palestinesi insorti in seguito alla provocazione di Ariel Sharon sulla spianata delle moschee. Democrazia che, come si è visto, bandisce e ostracizza anche chi, pur ebreo, osa affermare brandelli di verità storica e contraddire il mito fondativo dello stato, segnalando i rischi insiti nel continuo spostamento a destra delle forze politiche di governo. Spostamento che, a parte la parentesi del governo di Ehud Barak, eletto nel 1999 con la promessa di riprendere il processo negoziale di pace interrotto nel 1995 con l’assassinio di Ytzhak Rabin (firmatario con Yasser Arafat degli accordi di Oslo nel 1993 con i quali l’OLP accettava la situazione determinatasi dopo la guerra dei sei giorni nel 1967: il 78% della Palestina mandataria allo stato ebraico e il 22% alla nuova entità statale palestinese) da parte di un estremista della destra religiosa, ha visto protagonista proprio l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu. Fin dalla sua prima elezione a tale carica nel 1996, Netanyahu si distinse per le politiche favorevoli all’insediamento di coloni in totale sprezzo del diritto internazionale e per una politica di umiliazione e repressione nei confronti dei palestinesi, non disdegnando il ricorso sistematico alla tortura che gli è valso, allora, una condanna da parte dell’ONU in seguito alla denuncia da parte dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.
Quali le condizioni e gli esiti delle azioni genocidarie?
Ci si chiederà ora come sia potuto e possa accadere tutto questo dopo Auschwitz, nonostante Auschwitz? E quali possano essere gli obiettivi perseguiti da coloro che attuano queste azioni criminali? Prima di tentare una risposta nel merito, occorre far presente che dopo gli orrori dei campi di sterminio, “crimini contro l’umanità” e “genocidio” hanno contraddistinto in più di un’occasione l’operato di vari Paesi. Basti in proposito ricordare cosa accadde in Indocina un decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, allorché i francesi dovettero abbandonare il loro dominio coloniale sulla regione, lasciando agli Stati Uniti il compito di contrastare le lotte di liberazione di quei popoli. Stati Uniti che, come afferma Noam Chomski in un suo saggio magistrale titolato “Per ragioni di stato” (con una bella prefazione di Arundhati Roy), “si sono trovati di fronte una società e una cultura decisamente refrattaria al dominio imperiale” di fronte alla quale “non potevano fare altro che distruggerla”. Una distruzione che sarebbe rientrata a pieno titolo tra i “crimini contro l’umanità”, fino al “genocidio”, se a perpetrarla non fosse stata la superpotenza americana. L’azione di bombardamento della Piana delle Giare nel Laos è esemplificativa dei crimini perpetrati dagli Stati Uniti in Vietnam, Cambogia e Laos dal 1962 al 1975. Il principale ingrediente che rese possibile Auschwitz e che rende “tollerabili” questi crimini, è costituito in primo luogo dalla disumanizzazione delle vittime. Per fomentare sentimenti antisemiti tra la popolazione tedesca, ricorda Bauman, la propaganda nazista accusò gli ebrei di “crimini odiosi, di intenzioni delittuose e di ripugnanti vizi ereditari”. “Assecondando l’attenzione per l’igiene da parte della civiltà moderna – egli scrive – furono alimentate le paure e le fobie generalmente suscitate dai parassiti e dai batteri, e fu chiamata in causa l’ossessione dell’uomo moderno per la salute e la pulizia.” Un ingrediente che ricorreva pure nella propaganda USA durante la guerra del Vietnam (ma che ha accompagnato tutte le imprese coloniali) e che ricompare spesso nella propaganda sionista, fino alla definizione dei palestinesi come “animali umani” o esseri “sub umani” data dai governanti israeliani o da esponenti della destra religiosa ebraica. Questo mostra con tutta evidenza quanto gli attuali governanti israeliani siano stati bravi ad imparare la lezione impartita dagli organizzatori di Auschwitz e dell’Olocausto, spesso eretto a giustificazione dell’occupazione coloniale della Palestina ed oggi delle stesse azioni genocidarie di Israele. Abbiamo visto come ciò necessiti la sottrazione del mito fondativo della Stato da ogni ragione critica fondata sui fatti storici. Da ultimo, un fattore risultato decisivo nel neutralizzare la risposta della cosiddetta “opinione pubblica” mondiale di fronte alle azioni genocidarie condotte dall’Idf a Gaza è stato senz’altro rappresentato da quella che Raffaele Oriani ha definito “la scorta mediatica”, che ha visto arruolati nel minimizzare e giustificare tali azioni quasi tutti i media e i loro editorialisti di punta. Oriani, che ha ben analizzato il fenomeno in un agile libro titolato appunto “Gaza, la scorta mediatica”, conclude citando le parole del reverendo Munther Isaac, pastore della chiesa luterana di Betlemme: “Noi palestinesi ci risolleveremo. Ma voi che siete stati a guardare, mi dispiace per voi, non so se potrete mai risollevarvi”. Possiamo solo augurarci che dopo quanto avvenuto a Gaza, vale a dire la distruzione non solo materiale ma anche l’uccisione o la reclusione di medici, insegnanti e giornalisti (oltre all’eliminazione fisica di quasi tutti i dirigenti della Resistenza), il popolo palestinese possa ancora riconoscersi come tale e risollevarsi. L’effetto del genocidio, infatti, è quello di “decapitare” il “nemico” al fine di fargli smarrire la coesione e con esso, come scrive Bauman, “la capacità di proteggere la propria identità, e di conseguenza il proprio potenziale difensivo”. Così, egli osserva, si causerà il collasso della sua struttura interna “disperdendo il gruppo stesso in una moltitudine di individui che potranno essere affrontati uno ad uno e incorporati nella nuova struttura controllata dai vincitori, o forzatamente riaggregati in una categoria sottomessa e segregata, dominata e sorvegliata direttamente dagli amministratori del nuovo ordine”. Opzione chiaramente perseguita dal governo Netanyahu distruggendo Gaza e riducendo alla fame la sua popolazione, portando a termine il processo degenerativo in corso nella società israeliana. Processo messo in luce vent’anni fa dall’intellettuale israeliano Michel Warschawski che, nello stesso tempo, metteva in guardia i sinceri democratici del suo Paese come, dopo i tragici fatti del 1995, sia avvenuta in Israele una rapida degenerazione “fascista”, e non solo sul fronte di chi esercita il potere ma anche all’interno della società nel suo complesso. Nel suo libro titolato “A precipizio” osservava come l’ideologia affermatasi in quegli anni cruciali combinasse quattro elementi principali: “un militarismo nazionalista più o meno associato all’integralismo religioso; un razzismo dichiarato; un oltranzismo impregnato di messianismo e una rimessa in discussione di ogni norma democratica”. Egli osservava inoltre come “la violenza non si manifesta solo nel campo politico, ma nei rapporti quotidiani, in famiglia e per la strada”. Un progetto che somiglia tanto, su scala mondiale, all’obiettivo che si pone il Capitale in questa fase storica, disarticolare e disperdere ogni forma di resistenza da parte dei lavoratori e delle masse popolari, imponendo il dominio di una oligarchia finanziaria su una società atomizzata e strettamente sorvegliata con l’ausilio delle moderne tecnologie. Porre e porsi interrogativi, mettere in discussione miti e luoghi comuni per non arrendersi all’idea che la nostra umanità debba soccombere per cedere il passo al dominio assoluto del denaro, ad una nuova apartheid, correndo verso il precipizio. Ricordando sempre che, come ha osservato Bauman, unitamente al docile funzionamento della burocrazia e al comodo compromesso della scienza, il fattore principale che ha permesso l’Olocausto è stata “l’indifferenza” della maggior parte dei tedeschi, il “girarsi dall’altra parte” di fronte all’orrore. Così è stato anche per il genocidio a Gaza, abbiamo accettato di buon grado l’azione anestetizzante dei media, lasciando prevalere il nostro desiderio di tranquillità, il nostro non voler vedere, e così, ancora una volta, ci siamo girati dall’altra parte, indifferenti alle grida di dolore! “Odio gli indifferenti” scriveva Antonio Grasmsci, e ne aveva certo giusto motivo.
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